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martedì 24 luglio 2012

Manuel Cohen su Agave di Cinzia Marulli Ramadori


Recensione pubblicata sull'almanacco della poesia italiana Punto n.2-2012 (Ed. PuntoaCapo)

Cinzia Marulli Ramadori, Agave, LietoColle, Faloppio (CO) 2011. (di Manuel Cohen)
Agave è il libro di esordio di Cinzia Marulli Ramadori (1965), che arriva al primo titolo dopo un lungo percorso e varie presenze su riviste e antologie. Maria Grazia Calandrone nella sua prefazione definisce questo lavoro un “inno alla chiarezza della vita e dell’amore”. L’agave è una pianta molto comune, eppure dalla fioritura rara che può variare dai 6 ai quarant’anni dalla nascita. Generalmente, una volta fiorita, la pianta muore, o si riproduce grazie alla diramazione di bulbi e di radici sotterranei. La pianta ed il suo fiore sono presi dunque a pretesto per dire della vita trasmessa ad altra vita e della morte, della nascita e della continuità nel suo faticoso e silenzioso riaffiorare alla terra e alla luce. L’agave dunque come simbolo della fertilità della donna, tra genitorialità, maternità e filiazione: un portato al femminile, un DNA, implicito nella figura della madre, della figlia, della sposa e dell’amica: ma anche metafora ‘fiorita’ dell’otre materno, variamente registrato nella frequenza, ad esempio, del lemma grembo: «Nel grembo mio/ è nato il mio fiore» (Di catene avvinta, p.31). Ma con ogni probabilità, più del fiore, è la pianta ad imporsi quale correlativo oggettivo del corpo femminile: «Ed è nel mio grembo che nasce la speranza» (Amore, p.26). Agave è un viaggio iniziatico tra elementi di natura: non casualmente, ma predisponendo la parola al divenire cosmogonico, sin dai titoli delle sezioni sono chiamati a raccolta aria ed acqua, terra e fuoco; o tra biologia ed esistenza, che si impongono sempre come rispecchiamento o spia di una realtà sensoriale, relazionale, emozionale e metafisica. I testi della Marulli ci dicono con elementare esattezza le gioie e i dolori, gli inizi e le fini, le aspettative e le cadute, le passioni e le attese, e ci restituiscono una dimensione della scrittura priva di infingimenti, innervata a una fitta rete     interrelazionale: si pensi ai numerosi testi dedicati agli amici, come a voler restituire alla parola poetica una sua dimensione sociale, conviviale, altrimenti e in genere archiviata. Ma questa voce che non si nasconde e non teme di dire, e di dirsi, risulta tutt’altro che ingenua nelle sue modalità espressive: basterà una rapida osservazione della lingua. Ad esempio, sarebbe interessante uno studio dei verbi riferiti spesso ad azioni o parti del corpo e usati in efflorescenza di tropi o metafore “in aria e in aura botanica”, come suggerisce Plinio Perilli nella generosa e dotta postfazione: per non dire del particolare uso di molti termini e verbi, ad esempio, il ricorso al riflessivo ‘si arriccia’ usato come metafora dell’onda; o mareggiare: ‘mareggia il mio sentire’,  per non dire dei casi interessanti in cui per fenomeno di conversione linguistica aggettivo e sostantivo si trasformano in verbi: ‘mi rotondo nell’ignoto’, ‘s’arancia il mio sguardo’ . Al suo esordio, la nostra autrice dimostra di avere le idee chiare circa l’orientamento intrapreso dal proprio percorso: l’oggetto, ovvero la natura del rapporti umani, i legami e i sentimenti più autentici, e  la forma o stile: in direzione di una lingua che si personalizza, si irrobustisce con neologismi e soluzioni non scontate, e nella ricerca di una parola analogica riconoscibile, una volta che avrà del tutto metabolizzato, ed è un augurio che le facciamo, l’inevitabile prontuario metaforico e l’immaginario ‘di tradizione’.