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domenica 25 giugno 2017

ParolaPoesia: La poetica di Giorgio Caproni di Andrea Mariotti

Giorgio Caprioni - foto di Dino Ignani
C’è una poesia di Giorgio Caproni paradigmatica dalla quale converrà prendere le mosse nel presente scritto, intitolata "Battendo a macchina": “Mia mano, fatti piuma:/ fatti vela; e leggera/ muovendoti sulla tastiera,/ sii cauta. E bada, prima/ di fermare la rima,/ che stai scrivendo d’una/ che fu viva e fu vera…”; più che sufficiente davvero, tale poesia, grazie a questa sua prima strofe (inclusa nei "Versi livornesi", all’interno dalla raccolta IL SEME DEL PIANGERE, 1959) per comprendere il difficile e felice equilibrio tra spirito aristocratico e vena popolare raggiunto in modo esemplare da Caproni con la suddetta raccolta; per diversi studiosi il frutto più fine della sua storia poetica (e basterà citare al riguardo nomi come quelli di Biancamaria Frabotta e Pier Vincenzo Mengaldo; quest’ultimo prefatore del Meridiano Mondadori dedicato al poeta). Difficile se non impossibile, naturalmente, negare la grazia affilata della poesia di Giorgio Caproni fino all’acme del SEME DEL PIANGERE, dagli esordi genovesi influenzati dalle correnti ermetiche e, in particolare, dalla presenza tutelare e costante di Camillo Sbarbaro. Del resto non andranno dimenticati, del nostro poeta (nato a Livorno nel 1912), i notevoli sonetti “monoblocco” inclusi nel PASSAGGIO D’ENEA (raccolta del 1956) fra i quali spicca per chi scrive "Alba" (1945), con endecasillabi tronchi in uscita non vocalica rafforzati da interiezioni sapienti ( a frantumare la musica consolidata di una forma dorata e “chiusa” della nostra grande tradizione letteraria). In ogni caso anche il peso del PASSAGGIO D’ENEA risulta evidente, nello sviluppo del lavoro poetico del grande Livornese, alludendo alle famose e bellissime "Stanze della funicolare" leggibili in tale raccolta. Sarà bene a questo punto rammentare – volendo giungere al cuore di quanto mi preme sottolineare più avanti su Caproni- la finissima attività di traduttore del poeta, ripensando soprattutto ai suoi Proust, Céline, per tacer d’altri; giacché tale attività ha dischiuso ovviamente al grande Livornese, per sua stessa ammissione, lungo il corso degli anni, “zone” dell’affettività e della cognizione altrimenti insondate. Ma eccoci al punto: i lettori che amano il nostro poeta, e sono in molti, sanno di una innegabile, rilevante cesura fra un “primo” Caproni e un “secondo” Caproni, per così dire; cesura sulla quale sarà necessario insistere qui proprio per tentare di comprendere le ragioni di una voce poetica più che mai viva e incisiva nei tempi attuali. Così dicendo, ecco che non possiamo non individuare nel CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO & ALTRE PROSOPOPEE (1965), la suddetta cesura fra quanto precedentemente pubblicato da Caproni e la grande Trilogia compresa fra gli anni Settanta e Ottanta (IL MURO DELLA TERRA, 1975; IL FRANCO CACCIATORE, 1982; e IL CONTE DI KEVENHŨLLER, 1986). Basterà, in merito, rileggere la chiusa della poesia che dà il titolo alla citata raccolta del 1965 (dedicata all’attore Achille Millo): “Ora che più forte sento/ stridere il freno, vi lascio/ davvero, amici. Addio./ Di questo, sono certo: io/ son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento./ Scendo. Buon proseguimento”. Non posso negare, per quanto mi riguarda, di nutrire un sentimento quasi di devozione per tali versi: essi, infatti, nella loro disarmante semplicità, si fanno profondissima metafora della condizione umana; talché, a questo punto, la voce di Caproni conquista maggiore libertà tematica e formale rispetto alle precedenti e pur splendide prove (il pensiero torna, soprattutto, ai citati "Versi livornesi" del SEME DEL PIANGERE e dedicati ad Anna Picchi, ricamatrice e suonatrice di chitarra, madre del poeta; poeta-violinista, questi, peraltro, diplomato in composizione giovanissimo a Genova). Sia come sia, con il CONGEDO del 1965 (l’anno di un traumatico intervento operatorio per il poeta, che da allora fino alla morte vivrà da “resecato gastrico”, per sua stessa definizione); sia come sia, stavamo dicendo, col CONGEDO, comincia il “viaggio metafisico” di Giorgio Caproni, in tutta evidenza. Il grandissimo cantore di Genova, sua città d’adozione, e della madre- fidanzata del poeta (che intuizione, quella di cantare la giovinezza materna!); cantore nel contempo antico e sottilmente sabotatore come già detto, della nostra grande tradizione metrico-stilistica; questo cantore, insomma, col CONGEDO, scopre le sue carte decisive di “cerimonioso dicitore del nulla”, secondo quanto osservato da Italo Calvino (e non a caso il grande Livornese è stato accostato a Samuel Beckett). Il nostro poeta, austero e riservato, maestro elementare per tutta la vita, parlerà in effetti con la sua voce più alta nel 1975, dando alle stampe IL MURO DELLA TERRA, accolto con grande favore di critica e di pubblico. Con il MURO, infatti, tutto è mirabilmente al suo posto; nel senso che nel libro la densità metafisica di una evidente “ontologia negativa” (sempre per citare Calvino), è una cosa sola con una forma “frantumata e ellittica” (com’è stato osservato da più parti); la cui qualità più corrosiva, forse, consiste nella chiusa delle poesie: senza punti di domanda che possano favorire un rassicurante dialogo con il lettore. Detta qualità di Caproni, è stata individuata felicemente da Carlo Bo; senza stupirsene più di tanto da parte nostra; ché, in tutta evidenza, Carlo Bo ha avvicinato i grandi poeti del Novecento italiano più intensamente di altri; nel senso umano del termine, prima ancora che dal punto di vista strettamente critico. Ma torniamo a Giorgio Caproni. Dopo IL FRANCO CACCIATORE del 1982 -laddove si può percepire un certo “manierismo” rispetto al libro precedente, come osserva a parer mio giustamente Pier Vincenzo Mengaldo in antitesi, nella fattispecie, agli eccessivi entusiasmi di Pietro Citati- eccoci al cospetto dell’ultimo grande libro di Caproni: IL CONTE DI KEVENHŨLLER, del 1986. Con tale raccolta la poesia di Caproni raggiunge una stoica, rarefatta scansione; con alte e attualissime punte di agnizione nell’indicarci l’inquietante ambivalenza fra l’Essere e il Nulla: quasi il poeta si fosse dotato di un misterioso periscopio grazie al quale scrutare la scaturigine tutt’altro che rassicurante di tutti gli ossimori, di tutte le ambiguità (senza dare cioè l’impressione di una pratica letteraria e forzata dei contrari, ossia a posteriori). Così, nel CONTE DI KEVENHŨLLER, il cacciatore è la sua preda; la Bestia, per la cui uccisione il Conte ha promesso bei soldoni alla popolazione, è sfuggevole e parte di noi; e si potrebbe continuare a lungo. Il poeta morì il 22 gennaio 1990; sul comodino (è stato riferito) la pagina della COMMEDIA laddove spiccano i famosi versi: “L’alba vinceva l’ora mattutina/ che fuggia innanzi, sì che di lontano/ conobbi il tremolar de la marina”; Purg. I, 115-7: il giorno successivo, 23 gennaio, il suo funerale, senza la presenza delle autorità (nel quartiere romano di Monteverde, dove abitava); in perfetto stile con la riservatezza e il distacco del grande Livornese, si potrebbe chiosare con amara asciuttezza (non mancarono però Walter Binni, Biancamaria Frabotta e Valerio Magrelli). D’altronde la poesia di Giorgio Caproni costituisce un patrimonio ricchissimo e attuale della mente e del cuore di numerosi lettori; e di chi scrive in modo particolare -mi sia concesso di dire- avendo io abitato dal 1969 al 1980 a trecento metri dal grande Livornese, nella piazza dove sbocca la salita di via Pio Foà (via lungo la quale, dal 2012- in occasione del centenario della nascita di Caproni- è visibile al numero 28 una targa che lo ricorda, assieme ai versi di "Dopo la notizia", dal MURO DELLA TERRA). Mi piace concludere questo scritto citando di Caproni i versi in morte di Pasolini, suo grande amico (intitolati "Dopo aver rifiutato un pubblico commento sulla morte di Pier Paolo Pasolini" , ora inclusi nella raccolta postuma RES AMISSA, 1991, curata da Giorgio Agamben): “Caro Pier Paolo./ Il bene che ci volevamo/ -lo sai- era puro./ E puro è il mio dolore./ Non voglio pubblicizzarlo./ Non voglio, per farmi bello,/ fregiarmi della tua morte/ come d’un fiore all’occhiello.” Così era Giorgio Caproni, maestro elementare fino al 1973: un uomo riservato e fiero che insegnava ai suoi alunni invogliandoli a scrivere versi; non negandosi neppure a scuola la gioia del trenino elettrico.
         Andrea Mariotti


(scritto apparso nel blog andreamariotti.it in data 9/4/15 e successivamente incluso nel numero 61, maggio/agosto 2015, della rivista letteraria I FIORI DEL MALE)


Andrea Mariotti è nato a Roma nel 1955. E’ poeta e critico letterario. Studioso di Giacomo Leopardi, al quale ha dedicato il suo lavoro di laurea centrato sul pensiero filosofico del grande Recanatense intorno al tema dell’amore. Ha pubblicato due sillogi poetiche. E’ fino conoscitore della musica classica e della pittura.




ParolaPoesia: La forza della parola - I quattro tremori del giardino di Jean Portante (Ed. La Vita Felice)

I quattro tremori del giardino è un libro complesso, intenso, un libro che segna una fine e un inizio. E’ una storia intera, ma non la storia dei fatti, degli eventi. E’ la storia del sentire interiore. In questo libro c’è il bambino, l’uomo e il vecchio.  C’è quello che non si vede, o comunque c’è la visione vera di un apparire diverso. Il titolo crea un collegamento immediato con Gitanjali, Il Giardiniere di Rabindranat Tagore.  E sicuramente questi due libri sono fratelli, diversissimi, ma fratelli. Tagore ci parla del giardiniere in una metafora che rappresenta l’uomo che coltiva il giardino della sua anima e della sua vita. Portante ci parla dei suoi giardini, del loro tremore, delle macerie che li hanno sconvolti.
Però, non possiamo parlare di I quattro tremori del giardino senza prima accennare alla sua origine, alle radici che hanno fatto germogliare questo libro. E’ necessario ricordare che l’autore è figlio di immigrati italiani, abruzzesi dell’Aquila, per la precisione di San Demetrio. Qui in questo luogo ci sono le sue origini, da qui parte il suo essere, il suo sentire. Jean ha anche vissuto da bambino alcuni anni a San Demetrio, tornando successivamente con la famiglia in Lussemburgo dove ha continuato a parlare l’Italiano con la madre, in una società però dove le lingue si sovrappongono: il francese, il tedesco e il lussemburghese.  
Dopo il terremoto del 6 aprile 2009 dell’Aquila, Jean scrive  Après  le tremblement dal quale è tratto il Quattro tremori del giardino. In questo libro Jean ci parla del terremoto e delle sue conseguenze. Jean ci dice: il terremoto ha distrutto il mio paesaggio interiore. 
Esso, il libro, anzi consentitemi il “lui” perché lo voglio trattare come una persona, con una vita e un respiro, è dunque la storia di un’anima, il suo travaglio, il suo viaggio nel mondo, dal sud al nord, il sud dentro al nord.  E’ un libro che si apre al cambiamento, che, come l’araba fenice risorge dalle macerie.
Il libro è diviso in 4 sezioni, molto diverse tra loro sia nel contenuto che nello stile.
La prima sezione prevale l’anafora che qui diventa quasi un mantra. Tutti i testi poetici iniziano con a volte. Mi sono chiesta perché proprio a volte, cosa stia a significare. Non è sempre, non è mai, è a volte.  A volte è dunque una sorta di precarietà, c’è e non c’è, è un bilico. E’ lo stato d’animo, il sentire dell’autore che si è sempre sentito un viaggiatore, un migrante. E’ la sua terra, la sua origine, le sue radice che sono solo a volte, la sua stessa esistenza.  E’ dunque questo un libro che apre agli interrogativi e come tale ci porta a scavare dentro noi stessi e dentro alla storia dell’umanità.  
La seconda sezione (tutte le sezioni sono semplicemente numerate, senza titolo) si allontana solo leggermente dall’anafora. Magrelli,nella prefazione, parla di variazione para-anaforica. E’ il verbo vedere che si ripete in tutti i primi versi, ma anche qui ritorna all’interno del testo la locuzione a volte e spesso l’avverbio forse, così come molti i verbi al condizionale. Continua dunque il senso di bilico. Qui siamo di fronte a una poesia quasi surreale, onirica.
La terza sezione è composta, invece, secondo la metrica dei tanka giapponesi (5 versi di 5, 7, 5, / 7, 7 morae o per semplificare sillabe – morae, per la precisione, è un’unità fonetica che rappresenta un singolo suono). Attraverso lo stile poetico Jean Portante crea un collegamento con il Giappone devastato pochi anni prima da un immane terremoto. Una dedica dunque, un sentirsi vicini nella lontananza.
E’ questa una sezione di ricordi attraverso un viaggio spazio-temporale nella casa materna, dove sono presenti fortissime metafore.
La quarta sezione non abbandona il richiamo costante a una specifica parola che qui è all’avverbio ancora.  Siamo passati, perciò, dalla prima sezione con a volte che indica la precarietà, il bilico ad ancora che invece rappresenta la persistenza, passando per due sezioni dove predomina il senso della memoria o forse la ricostruzione di essa. Credo che l’autore voglia mettere tutti noi davanti a una realtà indiscutibile: la ricerca costante e inevitabile della ricerca delle proprie intime radici come aspirazione necessaria di ogni uomo per comprendere il cammino della propria esistenza.  

Cinzia Marulli


da I quattro tremori del giardino di Jean Portante (Ed. La Vita Felice 2016)
traduzione in italiano di Camilla Diez e Francesco Fava.

Parfois quand l’horizon semble se rapprocher
sans que la ligne qui lui doit la vie ne se rétracte
mon œil qui embrasse tout cela
ligne de vie horizon absence de rétractation

fait un bond vers l’intérieur et le rêve
qui ainsi est libéré
prend la forme d’un oiseau
allant se percher sur la corde à linge de notre jardin.

C’est là que pourvu que le vent ne fût pas trop fort
les draps pendaient jadis comme des morceaux d’aubes
parfois c’étaient des aubes entières qui y pendaient
et la corde était l’horizon
sans que la ligne qui lui donnait vie ne se rétracte.


A volte quando l’orizzonte sembra avvicinarsi
senza che si ritragga la linea che gli deve la vita
il mio occhio che abbraccia tutto questo
linea della vita orizzonte assenza di ritrattazione
fa un balzo verso dentro e il sogno
che in quel modo è liberato
prende la forma di un uccello
e va ad appollaiarsi sul filo del bucato del nostro giardino.

È lì che a patto che il vento non fosse troppo forte
le lenzuola pendevano un tempo come pezzi di albe
 a volte erano albe intere che pendevano
e il filo era l’orizzonte
senza che si ritraesse la linea che gli dava vita.


*

Parfois mais je n’en suis pas sûr
le jardin dont je parle prenait le chemin le plus court
 pour parvenir aux secrets qu’il ne savait pas taire.

Il arborait alors une soumission particulière
 avant d’empoigner une pelle
et de la planter dans le sol.

Et quand il se mettait à retourner terre et ciel
et que les nuages comme des mottes désarmées
 étaient ensevelies par tant d’ardeur
ou qu’au-dessus de tout cela volait un corbeau
 qui en savait plus long que moi
je me disais parfois mais je n’en suis pas sûr
que tout ce dont je pourrais me souvenir est régi
par le mystère de l’ensevelissement.

Sous la terre retournée les mottes de nuages
 renouent avec une ancienne coutume qui remonte
à des temps où quand il fallait pleurer
les larmes prenaient le chemin le plus court
quand une pelle les retournait
et qu’elles se mélangeaient à la terre ennuagée.


A volte ma non ne sono sicuro
il giardino di cui parlo prendeva la via più breve
per arrivare ai segreti che non sapeva tacere.

Inalberava allora una sottomissione particolare
prima d’impugnare una pala
e di piantarla nel suolo.

E quando si metteva a rivoltare terra e cielo
e le nuvole come zolle disarmate
erano seppellite da tutto quell’ardore
o in alto sorvolava un corvo
che la sapeva più lunga di me
io mi dicevo a volte ma non ne sono sicuro
che tutto quel che potrei ricordarmi è retto
dal mistero del seppellimento.

Sotto la terra rivoltata le zolle di nuvole
riannodano un’antica usanza che risale
ai tempi in cui se si doveva piangere
le lacrime prendevano la via più breve
quando una pala le rivoltava
e si mescolavano alla terra rannuvolata.


*

Ce qu’on voyait quand le brouillard se levait
c’était le soc qui labourait les âmes
dans un champ jadis fertile.

On aurait dit qu’un soleil se réveillait
tant les semeurs avaient les mains pleines.

Peut-être que si aujourd’hui on y regardait de plus près
on verrait les ombres des semences
tomber dans les sillons.

Peut-être qu’aujourd’hui ce qui se réveillerait
prendrait la forme de la mort.

Peut-être qu’un signe de mort se réveille aujourd’hui.


Quello che si vedeva all’alzarsi della nebbia
era il vomere che arava le anime
in un campo un tempo fertile.

Avresti detto che era un sole a risvegliarsi
da quanto erano piene le mani dei seminatori.

Forse oggi a guardarle un po’ più da vicino
si vedrebbero le ombre dei semi
cadere dentro i solchi.

Forse oggi quel che si risveglierebbe
prenderebbe la forma della morte.

Forse è un segno di morte che si risveglia oggi.


_________
Jean Portante è nato nel 1950 a Differdange, città mineraria del Granducato di Lussemburgo, figlio di emigranti italiani.
La sua infanzia, raccontata nel suo romanzo Mrs Haroy ou la mémoire de la baleine, è stata segnata da una doppia appartenenza, o piuttosto una non appartenenza poiché si è spesso sentito, come ogni emigrante, figlio della terra di nessuno.
Jean Portante comincia a scrivere a 33 anni. Prima ha studiato in Francia, a Nancy, dov'è stato protagonista delle manifestazioni del maggio '68 e professore di francese.
Nel 1983, quando scrive la sua prima raccolta di poesie Feu et boue (fe e bu – fuoco e fango) si trasferisce a Parigi. Lunghi soggiorni in America latina gli hanno consentito di familiarizzare con la lingua spagnola e, parallelamente al suo lavoro di scrittore, vanta un'attività ventennale di traduttore (di Juan Gelman, di Gonzalo Rojas e di decine di voci poetiche di lingua spagnola, tedesca, inglese e lussemburghese). Anche i suoi libri sono tradotti diffusamente.
Attualmente dirige a Lussemburgo la collezione Graphiti (poesie) di edizioni PHI e collabora al settimanale Il giovedì. In Francia è membro dell'Accademia Mallarmè e membro della giuria del Premio Guillaume-Apollinaire.
Nel 2003 ha ricevuto il Premio d'Autunno della Società dei Letterati, per l'insieme delle sue opere, oltre che il premio Mallarmè.
Precedentemente il suo romanzo Mrs Haroy ou la mémoire de la baleine gli era valso il premio Servais (miglior libro dell'anno).
A Lussemburgo ha fondato la rivista letteraria TRANSKRIT, consacrata alla traduzione della letteratura contemporanea. In Francia fonda, con Jacques Darras e Jean-Yves Reuzeau, la rivista INTIUTS DANS LA JUNGLE, il cui il primo numero appare nel giugno 2008.

In Italia sono state pubblicate tradotte le seguente opere:

Il romanzo Mrs Haroy e la memoria della balena  tradotto e curato da Maria Luisa Caldognetto – Empiria 2006

Il libro di poesie La cenere delle parole curato da Maria Luisa Caldognetto e con prefazione di Elio Pecora – Empiria 2011

Il libro di poesie Voglio dire con nota critica di Gabriela Fantato e traduzione di Elio Pecora – La Vita Felice 2012

Il libro di poesie I quattro tremori del giardino – tradotto da Camilla Diez e Francesco Fava e con prefazione di Valerio Magrelli – Ed La vita Felice 2016