Questa piccola scelta poetica dell’opera di Cinzia Marulli, magistralmente
tradotta in spagnolo da Emilio Coco, propone una serie di elementi meritevoli
di essere presi in considerazione. Prima di tutto, la bravura dell’autrice nel
momento di affrontare il processo creativo, i ricorsi e gli elementi in gioco,
gli spostamenti per diversi temi e sottotemi, la sua visione del mondo, come
quando parla della morte con una familiarità che commuove; c’è un grado di empatia
che la rende visibile a partire dalla quotidianeità, un’appartenenza vitale che
impressiona per la sua sincerità e la sua rilevanza. L’infanzia è ugualmente
presente, il recupero attraverso la memoria di quel paradiso perduto che ci
insegue e ci riconosce, come una ferita che non si cicatrizza mai. La sintesi e
il rigore sono altri due elementi di forza: dire tanto con così poco, una lezione
ben appresa, derivante, forse, dalle sue instancabili letture della poesía
orientale, di quegli autori la cui cosmovisione era nascosta in un granello di
sabbia o in un chicco di grano, il paesaggio e la sua impronta, quel “respirare
in pace perché gli altri respirino”, come diceva l’indimenticabile Jorge
Teillier, e quella capacità di stupire che ci porta per mano attraverso regioni
remote e inattese, in una traversata che non ha età né volto, che è yin e yang
per uno stesso destino, sogno e realtà, vita e morte di un divenire che
soggiace in versi rivelatori, mormorati come una sorta di epitaffio: “Quando
sarò dentro alla mia tomba / mi laverò l’anima con le parole /saranno loro le
mie preghiere”.
Mario Meléndez
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