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domenica 26 febbraio 2012

Manuel Cohen vince il premio Fortini 2011



Dal sito delle edizioni CFR di Gianmario Lucini
Manuel Cohen 
Winterreise.  La traversataoccidentale

ISBN 978-88-897224-33-4
Edizioni CFR - 2012 - pp. 152 € 13,00  (- 25% dal sito per ordini di almeno 20 € complessive)

Silloge prima classificata al Premio Fortini - 2° edizione.




“Traversata” dunque, ma nella cultura, dentro tutto il rimosso della cultura contemporanea. Significa insomma che l’intenzione del poeta, (che diverrà sempre più chiara nel corso delle undici sezioni, così come accresce l’intensità emotiva ed affettiva e lo stesso “ritmo”, a volte, della prosodia) non è quella di sottoporci l’ennesimo quadro storico–generazionale, ma piuttosto quello di rilanciare, sul piano culturale, proprio il rimosso, la pigrizia mentale di almeno due generazioni e dei nostri giorni. Ossia ildovere civile del poeta, il ruolo stesso della poesia nella società, già dagli esordi della poesia epica e tragica. L’intenzione è quella di andare a scavare dentro quei nodi, attualissimi e ancora irrisolti, che la cultura non vuole affrontare perché sono scomodi, veri e propri “scheletri negli armadi” della letteratura (e della poesia in particolare) dello “stile di vita” occidentale, del potere, della politica, e così via. L’intenzione è anche quella della resistenza, ma per nulla remissiva. [...]  Ma forse, più che forza ideale, debbo qui parlare di una sua puntuale “testimonianza alla verità”, sia pur soggettiva, ma senza remore e con grande coraggio. Testimonianza che non si esaurisce certo in se stessa ma diventa, man mano che il libro si sviluppa, vera e propria collera, esplicita e ritmata dalla fonoprosodia,  voglia di reagire, istigazione alla ribellione, ben al di là dell’impegno etico e civile di “dire la verità”. Cosa che manca a troppi poeti, che si appagano nel produrre una poesia, se non di consenso, almeno di “non detto” – la poesia del taciuto, del fra parentesi, del rimosso, appunto. Il testimone non cerca il consenso o l’approvazione: è impegnato dal giuramento, di “dire quello che sa”, al di là del fatto che piaccia o non piaccia, procuri plauso o magari sotterranei rancori – cosa frequentissima nel mondo delle lettere, popolata da insopportabili narcisi e disumanizzata dalla sua autoreferenzialità; o che gli procuri anche una chiusura ideologica a causa della sua chiarezza e delle sue accuse senza remore ai poteri e a chi li incarna (si veda ad es. le sezioni IX e X)
Dotato di tale equipaggiamento, il canto sgorga naturalmente alto e, direi, profetico, nella scia del profetismo laico pasoliniano (che permea in buona parte lo spirito di tutto il poema), condiviso con altri che, pur senza nome o appena riconoscibili per fugaci indicazioni disseminate nei testi, colloquiano col poeta sul basso ostinato della sua proposta critica, in veri e propri dialoghi poetici.
Una poesia forte dunque, segnata qua e là da una vena generazionale (in modo particolare nella terza sezione), che vuole mettere il dito nella piaga perché è dal riconoscimento del fallimento che può nascere una migliore avventura, umana e letteraria (si veda la feroce invettiva di tutta l’ultima sezione).
Cohen, peraltro, è conscio della vocazione piazziaiola di tanta poesia civile, gridata, a volte sgraziata, prolissa, sopra le righe, non di rado sciatta nel linguaggio, imprecisa, spesso ideologica e giacobina. Da critico raffinato si pone dunque anche il problema dello stile e lo affronta in maniera rigorosa, senza uscire mai dalla tradizione di rigore e ricerca della migliore poesia. I ritmi che preferisce sono quelli dell’endecasillabo e del settenario; la fonoprosodia si arricchisce di allitterazioni, di rime interne, di effetti lungamente cercati nel lavoro di lima, guardando alla migliore poesia del secondo novecento. Alla facile soluzione affabulatoria, alla prolissità, Cohen contrappone il rigore semantico e una concisione a volte esasperata e densa di allusioni, ma mai monca. Alla parola banale egli preferisce la parola precisa, capace di dire quello che vuole dire e non “più o meno” un certo significato. Uno stile, dunque (apparentemente) castigato dalla forma chiusa nelle ottave, nella rima, ma dalla densità di contenuti molto rara, nel panorama odierno.  (G. Lucini)

Credo siano tra le cose migliori che la nuova generazione ha saputo proporre in questi ultimi dieci anni: melicità e pensiero, metrica breve e sintassi lunga, vi si raccolgono a far fruttare la lezione del significato espresso ed esplicito reso con fresca musica, che da Saba giunge a Caproni e a Giudici. (Gianni D'Elia)

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giovedì 23 febbraio 2012

Mi vestirei di mare di Carla De Angelis

Nella vita nasce e si nutre la poesia di Carla De Angelis. Non ci sono fingimenti; è la realtà, quella del cuore, a cantare nei suoi versi. E sono versi asciutti perché nulla sia di troppo, perché non servono inutili giri di parole davanti al muto sentire dell’animo.  Proprio in tale sentire, che va oltre la bieca apparenza, che palpita e freme, si sostanzia la poesia di Carla. che diviene una voce forte della nostra contemporaneità dove sintesi e linearità tratteggiano uno stile diretto, incisivo, penetrativo.
Non ci sono avvenimenti eccezionali, personaggi illustri, storie blasonate, ma tutto è ricondotto ad una forte e intensa umanità: è l’uomo e la donna, nella loro quotidianità a essere protagonisti della storia, ad esprimere attraverso semplici e umanissimi gesti il grande senso della vita. Così Carla De Angelis ci dice: “Devi sapere che vivo di piccole cose/e grandi dolori, voli di Icaro/finiscono come gocce di acqua sul fuoco/continuo a pungermi con l’ortica/la porta sempre aperta/entrate  a piedi scalzi /non calpestate i disegni/. Perché ogni piccola cosa della nostra esistenza diventa grande in base al nostro sentire, perché il dolore ci piega e ci rende forti allo stesso tempo, ma soprattutto ci porta a desiderare di volare, come Icaro, purtroppo,  troppo vicino al sole;
Nelle poesie dedicate alla figlia si concentra il senso dell’amore, la dedizione assoluta che travalica la propria condizione per divenire insegnamento universale; non un insegnamento voluto, preteso, ma solo semplicissimo ed umilissino esempio. Carla ci esprime un concetto enorme con pochissime scarne parole: “Resto orfana/quando vai in vacanza/”. Si ribalta il ruolo materno, l’amore è così forte da privarci di ogni nostro passato davanti alla sua mancanza e la parola poetica diviene potenza assoluta.
Questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a includere la poesia di Carla De Angelis nei quaderni “Le gemme”, perché sento l’autenticità dei suoi versi nei quali la parola assume senso e sostanza: è l’anelito infinito dell’uomo che respira aria, ma anela a vestirsi di mare.
                                                                                Cinzia Marulli Ramadori

lunedì 20 febbraio 2012

La porta sul mondo di Maurizio Soldini (Giuliano Ladolfi editore – 2011)

Maurizio Soldini usa la parola poetica per lanciare un messaggio forte e chiaro, un grido d’aiuto e di speranza insieme.“La porta del mondo”, edita da Giuliano Ladolfi Editore, è infatti un poemetto di grande meditazione socio-esistenziale.
Il tema centrale, il così detto protagonista è “il centro commerciale”  inteso come limite estremo dell'evoluzione (o involuzione?) socio-economica della nostra collettività: “adesso è tutto concentrato/in uno scatolone/dove il tempo è scandito/da quel televisore/che annuncia le occasioni di giornata/...; il centro commerciale assurge a simbolo della perdizione dei valori umani: ... / e spinge l’avventore alla rinfusa/ad acquistare questa segatura/che fa da bagnasciuga al desiderio./
Tre sono gli eroi simbolici che emergono dai versi del poema:  Marcovaldo, Astolfo e Ulisse che rappresentano noi stessi nelle varie fasi storico-evolutive verso la cultura globalizzata e consumistica dei centri commerciali.
Il Marcovaldo di Calvino, che segnava il passaggio dalla società rurale a quella cittadina, ora viene preso a simbolo del passaggio a una società dominata, dunque, dai centri commerciali: “Oggi passerebbe delle ore indimenticabili al Centro Commerciale” scrive Soldini e Marcovaldo diviene infatti l’immagine dell’uomo ingenuo che si lascia trasportare dal desiderio verso l’effimero perdendo di vista l’orientamento non solo geografico ma soprattutto del proprio sé; Un Marcovaldo di-sperso e disorientato all’interno dei labirintici centri commerciali allo stesso modo di come eravamo noi quando questi mostri architettonici nacquero 20 anni fa.  
Ecco dunque che tutti noi diveniamo “Astolfo ,  esseri che invece non hanno smarrito l’orientamento, ma che,  anzi,  cercano  nei centri commerciali quell’elisir che possa illuderci di  riempire le nostre pochezze: ... Astolfi in cerca di elisir/ assennati tra cianfrusaglie/ scatole cartoni buste di plastica/per la spesa carrelli colorati/...  Ma è a Ulisse che viene dato il compito di resistere al desiderio, alle tentazioni; il compito di riuscire a tornare e a ritrovare sé stessi: Decidi allora / di andar controcorrente / di uscir da questo mare di incertezze./Vai via da MediaWorld/da quel mondo mediatico/in cui qualcuno/(forse tu stesso) ti aveva gettato./
Il fatto è che Maurizio Soldini non scrive questo poemetto solo per rappresentare la perdizione della condizione umana, ma lo scrive soprattutto per esortarci ad uscire da tale condizione, per ritrovare, come ci dice nel proemio, il giusto percorso: Canto l’eroe che nonostante tutto/naviga in questo mare di vergogna/Canto chi cerca la sopravvivenza/il tormento del post-moderno/la sopravvenienza dalla nebbia/ e l’uscita dal foro del non-senso./
Si giunge infatti all’epilogo, un epilogo di speranza, di fiducia nelle risorse intime dell’uomo che trova nell’arte, nella musica, nella poesia la sua ancora di salvezza, il mezzo ed il fine, la zattera magica che consente ad Ulisse di ritornare ad Itaca: Così rinasci e torni ad esser uomo (o donna)/... /... e con la poesia/e la musica tenti di essere più umano/di certo stra-vagato di certo attorcigliato/di certo assonnato e quindi corri corri/ tu corri  a perdifiato per ri-tornare a itaca/ nella tua isola pensando già al domani... /
Il linguaggio poetico usato da Soldini è totalmente coerente con la tematica affrontanta; è un linguaggio che ricerca il potere della comunicazione perché questo poemetto, che manifesta anche rilevanti note di ironia,  è in realtà una preghiera, un’invocazione, una supplica, un monito per svegliare l’uomo dal torpore nel quale è caduto e ci pone tutti davanti ad una scelta difficile, ma inevitabile.
                                                                                           Cinzia Marulli Ramadori





Maurizio Soldini, docente di Bioetica, svolge la sua attività di clinico presso la “Sapienza” Università di Roma. Ha all’attivo numerosi interventi, articoli e saggi anche su riviste internazionali. Collabora con Riviste e quotidiani, in particolare con i quotidiani ‘Il Messaggero’ e ‘Avvenire’. Ha pubblicato diverse monografie tra cui: ‘La bioetica e l’anziano’ (ISB, 1999), ‘Argomenti di Bioetica’ (Armando, 1999 e 20022), ‘Bioetica della vita nascente’ (CIC, 2001), ‘Filosofia e medicina. Per una filosofia pratica della medicina’ (Armando, 2006), ‘Wittgenstein e il libro blu’ (Mattioli 1885, 2009). Ha pubblicato le seguenti raccolte di versi: ‘Frammenti di un corpo e di un’anima’ (Aracne, 2006), ‘In controluce’ (LietoColle, 2009), ‘Uomo. Poemetto di bioetica’ (LietoColle, 2010) e ‘La porta sul mondo’ (Giuliano Ladolfi Editore, 2011).