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venerdì 3 giugno 2011

Maria Grazia Calandrone su Agave di Cinzia Marulli

Introduzione di Maria Grazia Calandrone alla raccolta Agave

L’agave viene dichiarata ad apertura, quasi a pre-testo, come metafora della scrivente, ma sembra essere anche metafora del figlio, del suo radicarsi nel corpo materno e fiorire una volta – ovvero nascere – e insieme sembra raccontare di un profondo essere figlia, nel sollevare una madre alla quale il volto cola come cera sul proprio male e un padre che l’ha già resa orfana ma ancora la sostiene, dall’altrove, perché – come in una cadenza d’inganno – questo libro è un inno alla chiarezza della vita e dell’amore, così condotto con la struttura botanica di una pianta che sboccia andando per una sola volta da radice a fiore. L’unicità del fiore spiega quanto sia duro e definitivo il fiorire, perché quello dell’agave è il fiore che annuncia la morte della pianta che lo porta come si porta uno stendardo finale.
Possiamo dire allora che queste poesie siano le orme del santo camminare della loro autrice, come recita un bel verso della penultima sezione, le tracce del suo avere camminato il mondo perché, come è tipico della poesia femminile, non c’è distanza tra la vita di Cinzia Marulli – al mare, con il figlio, dal logopedista, in ospedale dalla madre – e i suoi testi, i quali sono quasi bozzetti di quotidianità dietro la quale c’è lo specchio unico ed enorme del legame amoroso, e che paiono quasi scritti in una presa diretta sul mondo.
Ad esempio la bocca, descritta quale strumento di pena piegata a divorare addirittura se stessa che poi si piega invece a dire di una foglia gialla. Dunque siamo nella descrizione del mondo delle possibilità, dove una donna divora e restituisce quanto divora sotto forma di una inezia quasi, di una forma leggera di bellezza, che sia una foglia gialla o una poesia.
Il volume si chiude con la sezione Amore, composta di una sola poesia e di un contesto, ovvero la descrizione della genesi e del risultato di quell’unico testo nell’animo di una delle due destinatarie, una piccola creatura malata. In questa dedica e nel gesto della restituzione amorosa che chiude il volume viene fissato, come il fiore dell’agave, il senso di tutto quel caotico vivere, imbevuto e intriso di tutte le forme dell’amore che una donna può sperimentare: figlia di donna e di uomo, madre, amica, creatura immersa in una natura sororale, nei fiori e nel mare da dove siamo cominciati e che forse sarà il nostro fiore finale.
                                                                                    Maria Grazia Calandrone

Plinio Perilli su Agave di Cinzia Marulli


Nota Critica di Plinio Perilli pubblicata nella raccolta Agave


VENTRE e RADICE

Nella Terra che è Madre

 (Per Cinzia Marulli)



Carissima Cinzia,
                                   in uno degli adagi più dolci e insieme coinvolgenti del nostro amato Confucio, per l’esattezza al libro XV dei suoi Dialoghi (dedicato a “Wei Ling Gong”), tanta e tale saggezza che ci è assegnata recita: “Il Maestro disse: ‘Se uno non considera quel che è lontano, soffrirà da quel che è vicino’.”…
   Vedi, io ho sempre pensato che la Poesia ci chiami sempre a esercitare, o meglio addirittura ad adempiere – in contemporanea – uno fiero sguardo lungimirante ma anche un docile visus ravvicinato, entomologico, sulla cose del mondo. Cose come a dire: accadimenti, pensieri, problemi e loro soluzioni, speranze, gemmazioni, silenzi o aneliti, travagli immancabile – beh, al solito, di tutto un po’…
   Così, in strano e meraviglioso gioco reciproco, intarsio raffinato e mentale, ogni poeta si trova a dover fare i conti con le percezioni d’intimità, dentro o accanto a lui – ma similmente con il punto di vista (e di fuga) di lontani, e allontananti, orizzonti sensibili, paesaggi epocali, scenografie – vorrei addirittura dire – gnoseologiche! Non c’era nemmeno bisogno del monito radioso e pausato di Confucio per capire che non si può scegliere: ed entrambe le visioni sono essenziali sia per la nostra comune Realtà che per l’altrettanto e condivisa Idealità…
   Tutta la tua poesia, in effetti, non fa che ondeggiare tra una tenera, tepida vocazione intimista e una ardente (e anche ardita, affilata) vena civile… Tu l’additi e la confessi nella giudiziosa, temprata quartina di “Inchiostro”, capace quasi di mediare tra sentimento e ragione, e dunque risolvere – o provarsi a farlo… – un’equazione segreta e indimostrabile, che probabilmente nessun Credo lirico può comprendere, svelare, o peggio ancora scalfire:

   Straripa l’inchiostro
   dagli argini della mia anima

   è un fluire nero e tumultuoso
   sul bianco foglio della ragione

   Nero e bianco – luce e ombra – si alternano, si affrontano/si confrontano (e correlano): in una dialettica baluginante e umbratile che è l’unica possibile, praticabile quaggiù…
   Agave, questa tua prima e organica raccolta, si affida dunque a un esotico, comunissimo mito botanico per costruire metafore tra le più generose, partecipi e prospettiche che ci sia dato d’immaginare (o ancora – e seguiamo coi verbi quell’umano destino di pianta incarnata a simbolo: respirare, assaporare, contemplare e odorare…). L’agave, con la diceria scientificamente comprovata, della sua fioritura estrema e definitiva (fiorisce e muore – cioè fiorisce per morire, per morire la vita e rinascerne!), è sempre stata, vorremmo dire, ben più cara ai poeti che ai giardinieri deputati a curarla, tramandarla così gloriosamente – e rarissimamente – fiorita, travagliata (ammettiamolo) di superiore, quasi astratta Beltà…
   E qui invece, com’è vera e concreta la tua fioritura, il “Ventre” di ogni dolce e irruente nuova nascita!

   Radice ti insinuasti
                  tra le zolle incolte
   succhiasti l’acqua
                  dalle profondità nascoste
   crescesti come pianta
                  rampicante
   avvinghiandoti alla vita.

   Nel fiore esprimesti

                  il tuo sentire
            
   E quindi il tema dei temi, che irradia, infibra e compenetra tutta la raccolta – scandita e divisa nei quattro elementi, filosofici ma al contempo effettuali, che suddividono e aggregano, forse, l’intero nostro Universo: Terra, che tu chiami Radice; Fiore, cioè freschezza e Fuoco di giovinezza; Àmnios, id est Acqua; Aere, dunque Aria, respiro libero e in atto – il tema, dicevo, è il destino ed il ruolo “materno”, il fiore che fruttifica, la poesia che s’improsa ma nondimeno si distilla, s’alchimizza in lirica…

   Così la tua concreta, fiera e adempiuta Maternità, diventa in fondo la maternità di tutti (perfino degli uomini: se ci permetti di cambiare in corso d’opera il concetto fin troppo vièto e sfruttato della “paternità” maschile, con la contemplazione maschile del mistero (gaudioso, doloroso? – non aggettiviamo!) della maternità… Che Dio è anche Madre occorrerebbe un fiero e forte passaggio teologico a confermarlo – ma che la Madonna sia, faccia anche da Padre (o meglio, equiparata, consacrata insieme a Figlio e al Dio suo Padre), ce lo ricordava spessissimo Papa Karol Wojtyla, così devoto non solo al culto, ma alla quotidiana pratica, invocazione e anche guida mariana…

   «  … Nel mistero di Cristo ella è presente già “prima della creazione del mondo”, come colei che il Padre “ha scelto” come Madre del suo Figlio nell’incarnazione – ed insieme al Padre l’ha scelta il Figlio, affidandola eternamente allo Spirito di santità. Maria è in modo tutto speciale ed eccezionale unita a Cristo, e parimenti è amata in questo Figlio diletto eternamente, in questo Figlio consustanziale al Padre, nel quale si concentra tutta “la gloria della grazia”.  » 

   Ernest Renan, nella sua fascinosa Vita di Gesù (opera del 1863 tutt’altro che ortodossa, e che anzi si rivelò assai scomoda per le gerarchie pedanti e pedisseque: così realmente libera quale essa era, e disgiunta da ogni canone o vulgata), divagava certo in modo ben più marcatamente romanzesco. Ma tant’è:

   «  … Giuseppe morì prima che suo figlio giungesse a sostenere qualche parte pubblica. E così Maria divenne capo della famiglia; questo spiega perché, quando si voleva distinguere il figlio di lei dai molti omonimi, lo si chiamasse il più delle volte “figliuolo di Maria”. A quanto pare, trovandosi per la morte del marito straniera in Nazareth, ella si ritirò a Cana, forse perché oriunda di quel luogo. Cana era una piccola città distante due ore o due ore e mezzo da Nazareth, ai piedi delle montagne che chiudono a tramontana la pianura d’Asoscis.  …»

   Ricordo poi una strepitosa – delicatissima ma non meno intensa – poesia di Hermann Hesse (una “Riflessione del 1933), in cui il grande scrittore e iniziato assegna alla Madre, alla maternità il Corpo, e al Padre lo Spirito di quell’irripetibile e sempre ripetuta creatura-Figlio, creatura-Figlia, che è l’anima tremula umana:

  
   Dolce bensì e materna e calda ci abbraccia Natura,
   ci allatta la terra, ci accolgono culla e sepolcro;
   ma la Natura non dona la pace,
   e la scintilla
   dello Spirito immortale e paterno trapassa
   il suo incanto di madre, fa uomo l’infante,
   rompe il candore, a lotta e coscienza ci chiama.

   Così tra la madre ed il padre,
   tra il corpo e lo Spirito
   esita la creatura più fragile al mondo,
   l’anima tremula umana, capace d’affanni
   come nessuno, e capace del bene supremo:
   fede, speranza ed amore.
  

   E anche tu, si parva licet…, sùbito e sempre ti rivolgi al Figlio – o meglio a tuo figlio, evocandolo già in un incipit che ha il peso e il lievito d’un’antifona cadenzata, acclarata, d’un sacro/profano ritornello d’esistenza:

   Figlio
   io sono Agave
                nel suo fiore
                svetta
                il mio amore

   Conta che tu t’affidi a questa pianta e alla sua immagine, Cinzia cara, come alla più evocante e soccorrevole delle fiorenti e fiorite metàfore in aria e aura botanica… Leggo con forte presa immaginifica, dalla grande Enciclopedia Tematica L’UNIVERSALE (il 23° tomo, cioè la garzantina Fiori e Giardino, a cura di Ippolito Pizzetti), alla voce Agave:

   “… un’altra specie fra le più diffuse – piantata anche all’esterno, non solo in vaso e dentro l’appartamento – dove il clima lo consente, è la piccola A. Victoriae-Reginae; e qui e là si possono trovare, sempre nei giardini marini, anche l’A. ferox (una di quelle che più colpiscono la fantasia) e l’A. filifera. Le A. non richiedono particolari cure nella coltivazione, ma durante la stagione estiva beneficiano tuttavia di frequenti e ricche irrigazioni, ove naturalmente ce lo possiamo concedere. Sono lente a fiorire: alcune (come per esempio l’A. stricta) fioriscono dopo 6 o 8 anni, ad altre ne occorrono fino a 30 o 40. Come è noto molte A. sono monocarpiche e dopo la fioritura muoiono; ma si possono anche facilmente propagare (oltre che, ovviamente per seme) attraverso i polloni basali; alcune producono bulbilli alla sommità delle infiorescenze, facilissimi a radicare non appena vengano mesi a dimora.”


      Fondamentale, come per acclarare e testimoniare questo tuo culto fervido, avverato, dell’amicizia (in ispecie ma non solo femminile), l’approccio lirico di una feconda, amabile ritrattistica, che unisce al contorno sensibile, ai dati visibili ed effettuali di ogni comune e accomunante bellezza, la schietta valenza e cifra spirituale – sempre per te ineludibile:

   Ad Anita Napolitano

   la tua poesia è urlo di ribellione:
   è il pianto straziato del tuo dolore
   la passione, il sogno ed anche l’ardore
   è una lacrima di vera commozione.
  

   Nina

   Nel filo sottile
                       di luce
   si tratteggia
                       il tuo profilo
   così

   nel nero cigliare
                       del tuo sguardo
   si affannano
                       i tormenti
  

   Carla e Roberta

                                 (sull’Amore)

   Occhi bassi
   forse per non guardare
   questo mondo estraneo
   Ma la musica ti avvolge
   come un’amica
   E tu, quieta,
   ti fermi e l’ascolti
   e non ti importa
   se esseri bizzarri
   ti girano intorno
   Tu
   cerchi una mano sola
   la mano di tua madre
   che con infinito amore
   d’amore t’avvolge.


   Né ti vièti o ti dimentichi l’urgenza inesausta di testimoniare l’amore per la vita e l’ansia civile di chiunque s’erga a paladino di questa vita; illustre anonimo o eroico, esemplare cittadino che gli càpiti d’essere :

   Si straziano i silenzi


     (A Peppino Impastato,
a tutti i giovani che si sono ribellati
alla mafia, e alle loro madri)

   Si straziano i silenzi di una madre
   piangente sul corpo frusto del figlio
   che il silenzio ha rotto con la voce
   della sua coscienziosa e salda lotta

   ma non è nel lungo oblio che si perde
   l’urlo di rivolta del giovane piombato
   e il sangue si spargerà in ogni dove
   come stigma indelebile del coraggio
    


   Di pagina in pagina, macera, fermenta questa vita come mosto buono, vino che sta facendosi… Personalmente, a miglior brindisi lirico, scelgo le pagine più pazienti e dimesse, terapeutiche d’ogni speranza: quelle che danno conto – ad esempio – del lento, avvinto vincere della “Logopedia”…

   Il lieve esitare del tuo balbettio
   quella parolina sospesa sul respiro
   lo sguardo umido e spaventato

   bimbo mio,
   le risa beffarde dei bambini
   accompagnavano la tua voce

   tu tacevi, quindi
   chiuso nel tuo silenzio
   con mille colori disegnavi
                                 il suono
  

   O quel convocare ancora il ricordo e i riti eterni, immutati della Giovinezza (due volte avverati, in te e poi nel tuo ragazzo, Leonardo), come viaggi nostrani, familiari, ma oscuramente esotici, fioriture avventurose verso e da lidi impervi di continenti comunque sconosciuti, indomati all’Inconscio… 

   Parlano i silenzi della gioventù
   sono parole urlate nell’animo
                                   mutazioni chimiche
                                   di sensazioni eteree
   sono giochi beffardi e strafottenti
   che ridono beati dei sentimenti
  

   La cifra etica, cioè a dire sociopoetica è già tutta qui, in questa vigile, militante Coscienza Femminile (di figlia, poi madre – e al contempo, in vortice –, cittadina, amica, fidanzata, sposa, poetessa…) modernamente intesa e avverata (anche scontata)…
   Tre anni fa, accompagnando con un suo scritto il bel saggio di Gabriella Valli Maschio e femmina li creò (su “l’uomo e la donna” come “le due facce di una stessa medaglia che non possono né debbono essere omologate perché questo significherebbe annullare l’umanità così come la conosciamo, per costruire un ibrido convenzionale del quale stentiamo ad immaginare identità e consistenza e, soprattutto, un avvenire di pace.”) – Nina Maroccolo parlava e si rivolgeva appunto, con Gabri, in Gabri, a un’Eumènide irriconciliata:

   “… Non temere di temere ancora. Falla oggettivamente fuori questa paura paralizzante, per ridurre l’ingombro degli eccessi devozionali.
   Spurgare le cose guaste: concetto di riparazione. Stigma di femmina in realtà colma di forza, tesa alla padronanza del suo sé da ritrovare. Comunque Eumenide irriconciliata, biografa per tutte noi. Senza patetici femminismi che sanno di eresia in questi tempi, nell’odierno ammiccare ad un’errata emancipazione, quando si fa totalitarismo imposto dall’avvento mediatico.  …”
 
   Coscienza militante, abbiamo detto, forte e temprata, se necessario aguzza e pure affilata: ma anche maliòsa ed arcana, effusa in simbolo, e in fondo inossidabilmente archetipica… E capace, per dirla con la Maroccolo, di pareggiare e combattere ogni errata emancipazione, ahinoi, fin troppo pubblica e, lo vediamo, lo soffriamo, banalmente contemporanea…
   Ebbene, tu, Cinzia, hai di sicuro evitato, e lo irridi, lo smentisci ogni giorno, questo grosso rischio, questa perfida e pessima deriva consumistico-globalizzante, edonista-omologata, imposta dall’avvento mediatico… Magari trasformando una personale lotta contro la bulimìa, in splendido, coraggioso e consapevole auspicio metaforico, strategia e terapia epocale:

   Nella mente
   non c’è più ragione
   tutto diventa nebbia
   anche il dolore

   la mia bocca
   si trasforma
   è strumento di pena
   più ingoio e più espio
   io
   cattiva, brutta
   e inutile
   punisco la mia anima
   e ingoio me stessa


   Insomma un libro denso, caro, fertile insieme d’eventi interiori ed acquisizioni esistenziali – e dove il racconto riavverato, l’evangelio e quasi la visitazione, l’annunciazione laici della tua Maternità, ci risospinge, ci premia della luce d’una grande benedizione di comprensione:

   Nel mio corpo materia
   sta crescendo un fiore

   I suoi petali mi saziano

   L’anima mia grida

   È così forte il mutamento
   è la sabbia che diventa mare

   Il mio grembo esplode
   al vagito della vita.

   Dunque un libro materno ma non faziosamente femminile (anzi!, votato, vocato – l’abbiamo visto – a un ammirevole equilibrio psicosociologico!). E dove il miracolo della vita accompagna sempre in gioia anche il dolore della perdita: di un amore fecondo ma irrisolto; di un padre malato; di un cocciuto sogno progressista; della serenità di una mamma che ogni giorno di più sembrerebbe arrendersi alla cattiva salute, ma mai non spegne il fuoco salvifico, propiziatorio, della sua presenza forse anche tantrica, veglia e prova del magico…

     
   nella terra, Madre, mi trascini
   tra le radici e l’humus seppellisci il mio dolore
   e nei sogni ritorni a squarciare il mio buio

   tremola nel vento il riflesso del tuo viso
   che infine scompare tra le nebbie di un lago fatato

   L’acqua, tra i vari elementi, è – come il liquido amniotico – quello che accoglie e che conduce, protegge e sospinge (nel dolce lago della placenta, nel piccolo mare magnum salato – agostiniano – del Credo quia absurdum; negli stessi fiumi della mente o forse della fede, Giordani neobattesimali mai in secca, o intorbiditi… Tiberiade lacustre e senza tempo d’un’interminata, inenarrabile predica o pesca miracolosa (“… Ma alla quarta vigilia della notte Gesù andò verso loro, camminando sul mare. E i discepoli, vedendolo camminar sul mare, si turbarono e dissero: È un fantasma! E dalla paura gridarono.”… Matteo, 14, 25-26).

   Mareggia il mio sentire

   le mie risa sono spruzzi
   nell’aria tersa e fresca                  
                              del mattino.

   Su un letto di sabbia
                              giace il mio pensiero
   accoglie generoso
                              l’avanzare del mare
   ed io divento
                              acqua
   e poi
                              vento
   e poi ancora
                              onda possente
   e sento in me il divenire del mondo.

   Ogni maternità, Tu, Cinzia vuoi dirci, è un umano terrestre miracolo – diciamo anche, il ponte trasparente e poderoso (ma anche fragilissimo) tra Fede e Ragione, tra l’incredibile est dictu e l’adesione istintiva, la certezza immediata:    

   Si arriccia l’onda vicino alla riva
   lampeggia di sole l’acqua marina
   la sabbia accoglie i miei piedi scalzi
                         le orme del mio santo camminare
                         si perdono tra le acque del mare.

   Mi piace che un libro di poesia non ci faccia prediche e predicozzi, ma riconsideri i gangli addirittura filosofici, gli snodi teoretici della vera Fede… E mi piace questa tua religione irenista, cioè equilibrata, bilanciata di rispetto e tolleranza – che propugna dialogo e testimonia fraternità, ci abbraccia o s’inchina di nuda, pura sorellanza; e in nome della luce non rinnega, non evita le ombre, gli espressionismi cupi e carichi del Quotidiano…   
   Poi per virtù d’attesa e voto di pazienza, non diserta il malessere, non si vieta le tappe, le troppe e usuali stazioni da via crucis d’ogni pena allenata, d’ogni “Notte senza posa” educata ad esserlo…

   Nel buio si confonde
                  la mente razionale
   avanzano le ombre
   le immagini si trasformano
                  i pensieri turbinano
                  tra le lenzuola arrotolate

   La luce è ormai già accesa
   ma le ansie nella mente rintanate
                  resistono alla battaglia
                  e non cedono alla resa

   E allora: struttura lirica, rifrangenza romanzesca (romanzo di formazione), ritmo e posa monologante, in aperta e anzi manifesta, dichiarata confessione del quotidiano, contro ogni alienazione metafisica o tara vitale, edenica di surrealtà:

   I passi risuonano
   nella casa silenziosa
                  sono io che cammino
                  che vago senza posa
   inseguo una sola cosa
   un poco di quiete
                  sola quella vorrei
                  accompagnasse i miei sonni

   Poi cerco in me una risorsa
   una perla, un gioiello, una piccola gioia
                  ed ecco
                  figlio mio
                  spalancarsi all’improvviso
                  una finestra aperta sul tuo sorriso.

   Perla e risorsa, gioiello e piccola gioia – anche questa poesia chiede, promette e consacra al Figlio di volere, poter essere ancora e sempre miglior Madre… Migliore, come già lo fosti, se ancora e sempre, ogni giorno energica, della tua stessa fede di sempre, cresimata a una vera lotta per la pace…

   I giorni passati noi due da soli
   lontano da tutto ciò che era caro
   ricordi di adesso di un tempo passato
   tu eri piccino ragazzo mio
                            e forse lo ero anch’io

   siamo cresciuti insieme io e te
   e nelle notti senza luna
   io vegliavo la tua giocosità
   e tu accarezzavi la mia solitudine
  

   Finestra aperta al mondo e sul proprio sorriso…
   Madre/mare, e anche magari violenta, tempestosa mareggiata del proprio sentire… Onda possente che sostiene e induce il divenire del mondo – od ogni verso che ora, qui, adesso, esca dalla carta e dal foglio per bagnarci i piedi, lungo e felice consacrarne il percorso, battezzarci l’Essere così come l’Andare…  

(Roma, marzo 2011)                                        
                                                                     Plinio Perilli 



Rita Pacilio su Agave di Cinzia Marulli (LietoColle 2011)

Recensione di Rita Pacilio su Agave pubblicata sul sito della LietoColle


Ogni grande Poeta è in grado di aprire al lettore una stanza segreta in cui sono racchiuse le folgorazioni dell’esistente e il frenetico fondo enigmatico del suo sé, quasi sempre sfuggente e indicibile. L’orizzonte a cui si può attingere è un percorso narrativo polifunzionale che spesso ci fa correre un brivido lungo la schiena, perché è un cammino intimo e vulnerabile. Davanti a versi intrisi di emozioni personali e di immagini suggestive si subisce una ammaliante trasformazione e il lettore diventa autore: si entra nel personaggio, nell’estasi della parola, nell’intenzione del dire poetico, nel rito incantatorio o nel silenzio della voce multicolore accumulata lungo i disegni echeggiati dalla magia stilistica del verso post-moderno.
Le metafore diventano lo strumento per comunicare significati diversi: elaborare/trasformare conflitti interni e spigolosità quotidiane sorprendendo il mondo stesso e i suoi segreti in eloquenti collage di frammenti esperenziali di vita orizzontali, che da sinistra verso destra, scrivono uno schema sofferto, ma profondamente imbevuto d’amore, tanto quanto sa fare una figlia-madre o una madre-figlia o madre-natura a cui appartiene il mistero della vita intera.
Cinzia Marulli Ramadori nella sua riuscita opera prima Agave, ci dona un gomitolo di storie, una stanza in una casa, una casa in un giardino: un luogo in uno spazio ambiente-pianta che è uno spazio-tempo fatto di ambienti e distanze piccole-immense. Agave, la meravigliosa e fuggevole fioritura del tempo brevissimo di una pianta, è il semplice e naturalissimo fondale della vita di ogni giorno. Eppure la Marulli non ci trasmette ansia o preoccupazioni, i suoi versi non sanno di sconforto alcuno. Qui troviamo connotazioni accoglienti e rassicuranti, significati metaforici universali trasferibili a esperienze di vita calde in cui le movenze delle cose ci dimostrano che il Poeta dà voce, con guardo allegro e malinconico ad un tempo, alle ‘cose’ intorno, sublimando le pulsioni e i desideri in modo differente e inusuale agli altri esseri umani.
Il Poeta avverte la necessità di comunicare con le inquietudini fronteggiando e lottando contro barriere di pregiudizi e di regole: interagisce con un cosmo che racchiude molteplici mondi di sé, di bellezze, di vitalità e di realtà esterne che spesso sfuggono. Cinzia Marulli Ramadori utilizza tutti i sensi di cui dispone per relazionarsi con ogni ‘cosa’ che appartiene all’esterno all’altro da noi, per questo, attraverso  le sue pulsioni, ha saputo invitare la nostra anima, (radice, fusto e fiore) ad incamminarsi verso un dolore cosmico per scoprire, nel breve, ma meraviglioso tratto dell’Agave, lo splendore del paesaggio della vita.

Antonio Ragone su Agave di Cinzia Marulli (LietoColle 2011)

Recensione pubblicata sul sito della LietoColle:


L’agave fiorisce e muore: non si può non partire da tale affermazione per parlare di questa raccolta di poesie di Cinzia Marulli Ramadori. È qui la chiave di lettura che ci permette di entrare all’interno dei suoi versi, leggerli, nutrirsene e analizzarli. Vi si nota una decisa esigenza di “acqua” intesa come elemento purificatore d’una società, quella attuale, che ha imposto regole difficilmente condivisibili e quindi del tutto incapaci di rendersi vivibili. Son tanti i guasti che si riflettono nell’animo dei poeti, attenti e sofferenti spettatori, costretti ad immergersi nei meandri labirintici di mille domande già nella consapevolezza di non trovar risposte. Da questa asserzione ha origine l’inquietudine, l’ansia di voler contrapporre a codesti valori artefatti quelli veri, capaci di colmare-riempiere il vuoto del cratere dell’umanità. C’è dunque una “radice” umana da ripristinare, giacché disturbata da effetti negativi, alla quale Cinzia anela di poter ricondurre ogni principio dell’esistenza, affinché possa ritornare degna d’esser ri-definita tale. La “radice” è l’origine della vita, quel “ventre” da cui ripartire, il grembo che genera la vita, dove l’acqua è indispensabile per nascere, crescere, svilupparsi, e poi morire. Come l’agave, appunto. Non è forse il compito primordiale d’ogni cuore pulsante essere come te, agave, “come pianta /rampicante / avvinghiandoti alla vita / nel fiore esprimesti / il tuo sentire”?. L’agave, dunque, come metafora della vita che deve portare al compimento d’una realtà migliore, così come Cinzia utilizza l’inchiostro di cui la poesia si serve per conciliare desiderio e ragione, dove anche l’utopia ne è virtuosa complice al fine d’ elevare la passione d’una tesi civile, descritta con decorosa cura, attraverso l’utilizzo di pregevoli scelte stilistiche. Si fanno molto apprezzare i versi dove il ritmo metrico si congiunge con sincera partecipazione al dramma civile: si vedano “Si straziano i silenzi” e “Aria; in quest’ultima è interessante notare come ritorna, in maniera del tutto autonoma, originale e personalissima, il tema “rosa-spina”: “il lento perpetuare del dolore… / nel rosso setare della rosa / e nell’acuto pungicare delle spine”. La poesia di Cinzia è poesia che attira e attrae, è come essere davanti al mare seduti, confondersi nei suoi flutti e perdersi nell’orizzonte dei pensieri (Maestrale), come quando ci si rispecchia nell’acqua (“Acqua”), dove solo si può scorgere il vero volto dell’amore.


Cinzia Marulli: prefazione a "Oltre la siepe... la verità" di Anna Giordano (Girardi Editore).

Leggere Oltre la siepe… la verità è come fare un viaggio camminando in punta di piedi e i personaggi, per nulla scontati, appaiono lungo la strada come se fossero compagni d’avventura.
Gli eventi trascinano il lettore in una dimensione di suspence, dove il colpo di scena è sempre presente.
L’ambientazione è quella degli anni ’70, gli anni dei figli dei fiori, delle rivolte e dei cambiamenti sociali, ma anche dei ragazzi con sani principi rispettosi verso gli altri e la società. E’ proprio così è la protagonista, Sabrina Deletti, una ragazza appena diciottenne che dietro al suo atteggiamento compìto nasconde prima, e svela dopo, un carattere forte e determinato che le farà affrontare gli eventi con coraggio e consapevolezza e, soprattutto, con intraprendenza.
Sabrina Deletti è l’eroina creata dall’autrice, Anna Giordano, che tramite lei vuole rappresentare un ideale di donna pronta a sfidare le avversità e i misteri della vita, capace di guardare lontano e nello stesso tempo in sé stessa, altruista e generosa, ingenua, ma intelligente, pronta a lasciarsi dietro le spalle un passato di serenità e lottare per la verità e la giustizia.
Sabrina Deletti si trova catapultata in situazioni pericolose e ambigue e dovrà fare i conti con scoperte sconvolgenti. Tutto il romanzo è un susseguirsi di eventi che stravolgono la situazione precedente e, proprio attraverso questi accadimenti, l’autrice pone l’accento sull’importanza di andare oltre le apparenze, di non fermarsi mai ad una prima, superficiale visione delle cose e dei fatti. Questo è il messaggio che l’autrice ci trasmette.
 Protagonista indiscusso del romanzo è sicuramente “l’imprevisto” che attraverso le varie vicissitudini accresce l’esperienza della vita della protagonista mettendo inevitabilmente alla prova le sue capacità.
In un certo senso è “il destino” che trascina le nostre vite verso strade che mai avremmo immaginato di percorrere, è il bello della vita,  il mistero, l’imponderabile che rende il tutto più affascinante e degno di essere vissuto come un’avventura romantica e cavalleresca.
Possiamo affermare che l’autrice si manifesta attraverso questo romanzo con tutta la sua ricchezza interiore e forse, inconsciamente, trasmette alla protagonista le proprie caratteriste e la pone al centro di eventi che hanno una qualche similitudine con gli eventi della propria vita.
Del resto è inevitabile per chi scrive che passi attraverso la propria interiorità che è fatta anche di conquiste personali e materiali.
Comunque non intendo svelare di più sul contenuto del romanzo per lasciare così, al lettore, il gusto di scoprire il mondo affascinante creato da Anna Giordano.
Preferisco invece soffermarmi un attimo sullo stile linguistico utilizzato. Uno stile particolarissimo, fatto essenzialmente di discorsi diretti, tanto da poter essere assimilato ad una sceneggiatura. E non è quindi un caso che, mentre si legge il romanzo, sembra di vedere concretamente davanti ai propri occhi le scene della narrazione. I personaggi appaiono reali con una loro voce ed un loro volto, le immagini sono colorate dalla loro ambientazione. Tutto è reale e nello stesso tempo immaginario.
E’ un viaggio… un viaggio in punta di piedi che l’autrice ci invita a compiere.




Cinzia Marulli: prefazione a "Singolare Quotidianità" di Massimo Tassistro (Ed. Progetto Cultura)

In un’epoca in cui basta dare un sguardo fugace intorno a noi per vedere tutto rappresentato nella sua apparenza più straordinaria, nella sua eccezionale munificenza, in una visione ormai globale che ci pone davanti agli occhi uomini super muscolosi capaci di infinite prodezze e donne perfette e affascinantissime, insomma in un contesto dove oramai l’apparenza dell’apparire è molto più importante dell’essere, il nostro autore, Massimo Tassistro, ci sorprende invece con le sue storie e con i suoi protagonisti. A lui infatti non interessa scrivere di eroi finti e immaginari che cambiano la nostra percezione della realtà facendoci sentire sempre più piccoli ed insignificanti ma, al contrario, all’autore interessa parlare dell’UOMO, delle sue umanissime paure e dei suoi umanissimi limiti, di quelle piccole cose di tutti i giorni che rendono la nostra vita bella ma che, troppo spesso, ignoriamo chiudendoci, invece, nella gabbia delle nostre insoddisfazioni.  Massimo Tassistro ci ricorda infatti il piacere per “gli attimi di passione umana” riconducendoci  ad una dimensione reale e possibile del nostro status.
I protagonisti delle sue storie siamo noi, è l’autore stesso con i nostri ed i suoi limiti, ma questi limiti non sono barriere alla grandezza della natura umana,  anzi la connaturano rendendo titano l’uomo che ne acquista coscienza e consapevolezza e che li accetta facendone la propria più ovvia caratteristica.
I protagonisti degli scritti di Massimo Tassistro non sono i super-eroi, ma sono gli eroi-uomini. 
Su questo presupposto egli affronta le tematiche e le situazioni più varie allo stesso modo di come, del resto, accade nella vita reale:  passiamo quindi dall’amicizia all’incontro e all’accettazione dell’omosessualità, dall’apprezzamento per la libertà dell’individuo e per le piccole cose di tutti i giorni alla compassione per le persone che invece vivono situazioni di disagio.
Ma l’autore va anche più in profondità e ci mette in guardia ricordandoci sempre e costantemente che la vita è imprevedibile, che le cose che abbiamo, quelle piccole cose di tutti i giorni,  le persone care, gli affetti, le amicizie non devono essere date per scontate, ma sono doni immensi che possiamo perdere in qualsiasi momento, come a volte accade ai protagonisti dei racconti che si trovano, a volte, ad affrontare le perdite  e difficoltà con le risorse del loro animo trasmettendoci un importante messaggio salvifico.
I racconti di Massimo Tassistro sono uno spaccato di vita umana vista attraverso gli occhi di un bravo ragazzo, assennato, pacifico, sereno ma nello stesso tempo mai superficiale, anzi profondo nel suo pensiero e nelle sue considerazioni.
E’ come se l’autore ci prendesse per mano per condurci verso nuove prospettive che portano inevitabilmente alla rielaborazione dei nostri punti di riferimento e che rilegano i messaggi massmediatici contemporanei ad una sfera di falsità in quanto basati essenzialmente sull’apparenza per ritrovare, invece, una profondità di sentimenti e di principi.
Possiamo infatti dire, senza alcun dubbio che c’è un vero grande protagonista in tutti i racconti dell’autore ed è  l’humanitas con tutte le sue connessioni filosofiche e psicologiche.
Importante è anche rilevare come lo stile linguistico e narrativo utilizzato dall’autore sia pienamente in sintonia con i contenuti rappresentati. Si tratta di uno stile semplice, chiarissimo, di immediata e diretta comprensione perché, del resto, solo così il messaggio salvifico che Massimo Tassistro trasmette può giungere umanamente a tutti: tutto è armonico in questo libro e ciò che si percepisce è un profondo senso di pacatezza  piacevolmente interrotto, però, dalle emozioni che i sentimenti in esso espressi suscita.














Cinzia Marulli: prefazione a "Estremità strappate" di Massimo Pacetti

Questa raccolta di Massimo Pacetti, se pur rappresentata da sole 15 liriche, è in realtà intensamente rappresentativa di tutta l’opera del poeta e del suo cammino interiore e spirituale. E’ una storia spazio-temporale che abbraccia ed esalta attimi intensamente vissuti e sentiti. I sentimenti in essa emergono titani: non c’è pacatezza, c’è invece tutta la forza delle emozioni e delle sensazioni, dell’ universo intimo che straripa di energia, della consapevolezza verso le scelte prese e di ravvedimento verso un passato dapprima rinnegato e poi teneramente ricordato.
Molti critici letterari hanno evidenziato il tema del “dolore” quale elemento preponderante nella poesia del poeta, ma io voglio osare andare oltre e definire Massimo Pacetti come “il poeta del coraggio”. Infatti già nella prima lirica “Gennaio ‘63” mi è parsa chiara questa caratteristica che, badate bene, non è solo del poeta, ma anche dell’uomo, giacché non c’è verso che non scaturisca dalla propria anima e che non sia figlio della propria esistenza interiore e materiale.
Gennaio ‘63” inizia con questi versi “Son partito su un camion/ senza voltarmi;/lasciando lassù/fra i boschi e gli ulivi/tutto me stesso” che, senza ombra di dubbio, racchiudono tutta la forza ed il coraggio di quest’uomo, anzi di questo ragazzo (siamo nel ’63 come ci ricorda il titolo stesso della poesia) che di giovane poi ha solo l’età poiché il coraggio è invece quello della consapevolezza matura, della sofferenza annosa, delle catene troppo strette o forse troppo corte.  Già in questi primi versi tanto apparentemente semplici quanto intensi e significativi si manifesta interamente non solo “la poesia” del Pacetti ma anche il messaggio che essa trasmette, un messaggio che parte sicuramente dalla sofferenza, dal dolore, anzi in questo caso forse sarebbe più giusto dire dall’insofferenza (…lasciando lassù tutto me stesso…), senza però mai cadere nel vittimismo, per poi ergersi nel “coraggio” e nella “forza” con il verso “Son partito su un camion senza voltarmi…”
E’ questo forse anche un grido di incitamento verso i giovani di oggi troppo annichiliti dal benessere malsano che ha tolto loro tutta la visione prospettiva verso un futuro da conquistare e da amare? Io voglio credere di sì. Credo che Massimo Pacetti, poeta e uomo, abbia atteso tanto per pubblicare questa raccolta, e questa lirica in particolare, perché voleva attendere il momento giusto per trasmettere, attraverso la sua esperienza, un messaggio alle nuove generazioni affinché anch’esse trovino il coraggio di salire su un camion abbandonando il nido ovattato che li accerchia per raggiungere la propria individuale realizzazione e con essa quella della società alla quale appartengono.
Ma il tema del “coraggio” non si manifesta solo nei versi già citati bensì è insito in ogni poesia della raccolta come ad esempio in “Sogno inconscio” dove la forza del primo viaggio verso l’ignoto si trasforma in ardente desiderio di andare oltre i propri limiti scrutando nel profondo (…mi sono voltato indietro/a metà dal cammino/ero solo/tutti gli altri erano/affacciati dall'alto/del burrone/guardavano immobili/non sarebbero scesi/solo io ero sceso/per trovare vedere/quello che avevo/nella notte ascoltato/nella profondità della mente/in quel sogno inconscio/che raccoglie l'eternità/del cuore) o in “Teatri” nella quale si evidenzia il coraggio dell’accettazione del proprio destino, e della propria solitudine.
Ma altri elementi appaiono nella raccolta degni di essere citati quali elementi fortemente caratterizzanti della poesia di Massimo Pacetti quali “l’importanza del ricordo” visto come un ripercorrere le proprie esperienze e sensazioni e come mezzo per l’acquisizione della consapevolezza del proprio operato, ma anche con un’accezione negativa come si evidenzia nella poesia “Senza tempo” nella quale il poeta anela a non avere più ricordi perché solo così potrà sentirsi un uomo nuovo;  e ancora la “figura femminile”, “la donna” vista come salvatrice e personificazione del sentimento d’amore ed al riguardo non si può non prendere ad esempio  la lirica “Luoghi” ove la donna è magnificamente decantata come colei che detiene “il luogo dell’anima”.
La mia personalissima analisi si ferma a questa ultima considerazione per lasciare al lettore il gusto ed il piacere di immergersi nel mondo poetico di Massimo Pacetti e scoprire ciò che solo un animo profondamente sensibile e percettivo può trasmettere.