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venerdì 3 giugno 2011

Plinio Perilli su Agave di Cinzia Marulli


Nota Critica di Plinio Perilli pubblicata nella raccolta Agave


VENTRE e RADICE

Nella Terra che è Madre

 (Per Cinzia Marulli)



Carissima Cinzia,
                                   in uno degli adagi più dolci e insieme coinvolgenti del nostro amato Confucio, per l’esattezza al libro XV dei suoi Dialoghi (dedicato a “Wei Ling Gong”), tanta e tale saggezza che ci è assegnata recita: “Il Maestro disse: ‘Se uno non considera quel che è lontano, soffrirà da quel che è vicino’.”…
   Vedi, io ho sempre pensato che la Poesia ci chiami sempre a esercitare, o meglio addirittura ad adempiere – in contemporanea – uno fiero sguardo lungimirante ma anche un docile visus ravvicinato, entomologico, sulla cose del mondo. Cose come a dire: accadimenti, pensieri, problemi e loro soluzioni, speranze, gemmazioni, silenzi o aneliti, travagli immancabile – beh, al solito, di tutto un po’…
   Così, in strano e meraviglioso gioco reciproco, intarsio raffinato e mentale, ogni poeta si trova a dover fare i conti con le percezioni d’intimità, dentro o accanto a lui – ma similmente con il punto di vista (e di fuga) di lontani, e allontananti, orizzonti sensibili, paesaggi epocali, scenografie – vorrei addirittura dire – gnoseologiche! Non c’era nemmeno bisogno del monito radioso e pausato di Confucio per capire che non si può scegliere: ed entrambe le visioni sono essenziali sia per la nostra comune Realtà che per l’altrettanto e condivisa Idealità…
   Tutta la tua poesia, in effetti, non fa che ondeggiare tra una tenera, tepida vocazione intimista e una ardente (e anche ardita, affilata) vena civile… Tu l’additi e la confessi nella giudiziosa, temprata quartina di “Inchiostro”, capace quasi di mediare tra sentimento e ragione, e dunque risolvere – o provarsi a farlo… – un’equazione segreta e indimostrabile, che probabilmente nessun Credo lirico può comprendere, svelare, o peggio ancora scalfire:

   Straripa l’inchiostro
   dagli argini della mia anima

   è un fluire nero e tumultuoso
   sul bianco foglio della ragione

   Nero e bianco – luce e ombra – si alternano, si affrontano/si confrontano (e correlano): in una dialettica baluginante e umbratile che è l’unica possibile, praticabile quaggiù…
   Agave, questa tua prima e organica raccolta, si affida dunque a un esotico, comunissimo mito botanico per costruire metafore tra le più generose, partecipi e prospettiche che ci sia dato d’immaginare (o ancora – e seguiamo coi verbi quell’umano destino di pianta incarnata a simbolo: respirare, assaporare, contemplare e odorare…). L’agave, con la diceria scientificamente comprovata, della sua fioritura estrema e definitiva (fiorisce e muore – cioè fiorisce per morire, per morire la vita e rinascerne!), è sempre stata, vorremmo dire, ben più cara ai poeti che ai giardinieri deputati a curarla, tramandarla così gloriosamente – e rarissimamente – fiorita, travagliata (ammettiamolo) di superiore, quasi astratta Beltà…
   E qui invece, com’è vera e concreta la tua fioritura, il “Ventre” di ogni dolce e irruente nuova nascita!

   Radice ti insinuasti
                  tra le zolle incolte
   succhiasti l’acqua
                  dalle profondità nascoste
   crescesti come pianta
                  rampicante
   avvinghiandoti alla vita.

   Nel fiore esprimesti

                  il tuo sentire
            
   E quindi il tema dei temi, che irradia, infibra e compenetra tutta la raccolta – scandita e divisa nei quattro elementi, filosofici ma al contempo effettuali, che suddividono e aggregano, forse, l’intero nostro Universo: Terra, che tu chiami Radice; Fiore, cioè freschezza e Fuoco di giovinezza; Àmnios, id est Acqua; Aere, dunque Aria, respiro libero e in atto – il tema, dicevo, è il destino ed il ruolo “materno”, il fiore che fruttifica, la poesia che s’improsa ma nondimeno si distilla, s’alchimizza in lirica…

   Così la tua concreta, fiera e adempiuta Maternità, diventa in fondo la maternità di tutti (perfino degli uomini: se ci permetti di cambiare in corso d’opera il concetto fin troppo vièto e sfruttato della “paternità” maschile, con la contemplazione maschile del mistero (gaudioso, doloroso? – non aggettiviamo!) della maternità… Che Dio è anche Madre occorrerebbe un fiero e forte passaggio teologico a confermarlo – ma che la Madonna sia, faccia anche da Padre (o meglio, equiparata, consacrata insieme a Figlio e al Dio suo Padre), ce lo ricordava spessissimo Papa Karol Wojtyla, così devoto non solo al culto, ma alla quotidiana pratica, invocazione e anche guida mariana…

   «  … Nel mistero di Cristo ella è presente già “prima della creazione del mondo”, come colei che il Padre “ha scelto” come Madre del suo Figlio nell’incarnazione – ed insieme al Padre l’ha scelta il Figlio, affidandola eternamente allo Spirito di santità. Maria è in modo tutto speciale ed eccezionale unita a Cristo, e parimenti è amata in questo Figlio diletto eternamente, in questo Figlio consustanziale al Padre, nel quale si concentra tutta “la gloria della grazia”.  » 

   Ernest Renan, nella sua fascinosa Vita di Gesù (opera del 1863 tutt’altro che ortodossa, e che anzi si rivelò assai scomoda per le gerarchie pedanti e pedisseque: così realmente libera quale essa era, e disgiunta da ogni canone o vulgata), divagava certo in modo ben più marcatamente romanzesco. Ma tant’è:

   «  … Giuseppe morì prima che suo figlio giungesse a sostenere qualche parte pubblica. E così Maria divenne capo della famiglia; questo spiega perché, quando si voleva distinguere il figlio di lei dai molti omonimi, lo si chiamasse il più delle volte “figliuolo di Maria”. A quanto pare, trovandosi per la morte del marito straniera in Nazareth, ella si ritirò a Cana, forse perché oriunda di quel luogo. Cana era una piccola città distante due ore o due ore e mezzo da Nazareth, ai piedi delle montagne che chiudono a tramontana la pianura d’Asoscis.  …»

   Ricordo poi una strepitosa – delicatissima ma non meno intensa – poesia di Hermann Hesse (una “Riflessione del 1933), in cui il grande scrittore e iniziato assegna alla Madre, alla maternità il Corpo, e al Padre lo Spirito di quell’irripetibile e sempre ripetuta creatura-Figlio, creatura-Figlia, che è l’anima tremula umana:

  
   Dolce bensì e materna e calda ci abbraccia Natura,
   ci allatta la terra, ci accolgono culla e sepolcro;
   ma la Natura non dona la pace,
   e la scintilla
   dello Spirito immortale e paterno trapassa
   il suo incanto di madre, fa uomo l’infante,
   rompe il candore, a lotta e coscienza ci chiama.

   Così tra la madre ed il padre,
   tra il corpo e lo Spirito
   esita la creatura più fragile al mondo,
   l’anima tremula umana, capace d’affanni
   come nessuno, e capace del bene supremo:
   fede, speranza ed amore.
  

   E anche tu, si parva licet…, sùbito e sempre ti rivolgi al Figlio – o meglio a tuo figlio, evocandolo già in un incipit che ha il peso e il lievito d’un’antifona cadenzata, acclarata, d’un sacro/profano ritornello d’esistenza:

   Figlio
   io sono Agave
                nel suo fiore
                svetta
                il mio amore

   Conta che tu t’affidi a questa pianta e alla sua immagine, Cinzia cara, come alla più evocante e soccorrevole delle fiorenti e fiorite metàfore in aria e aura botanica… Leggo con forte presa immaginifica, dalla grande Enciclopedia Tematica L’UNIVERSALE (il 23° tomo, cioè la garzantina Fiori e Giardino, a cura di Ippolito Pizzetti), alla voce Agave:

   “… un’altra specie fra le più diffuse – piantata anche all’esterno, non solo in vaso e dentro l’appartamento – dove il clima lo consente, è la piccola A. Victoriae-Reginae; e qui e là si possono trovare, sempre nei giardini marini, anche l’A. ferox (una di quelle che più colpiscono la fantasia) e l’A. filifera. Le A. non richiedono particolari cure nella coltivazione, ma durante la stagione estiva beneficiano tuttavia di frequenti e ricche irrigazioni, ove naturalmente ce lo possiamo concedere. Sono lente a fiorire: alcune (come per esempio l’A. stricta) fioriscono dopo 6 o 8 anni, ad altre ne occorrono fino a 30 o 40. Come è noto molte A. sono monocarpiche e dopo la fioritura muoiono; ma si possono anche facilmente propagare (oltre che, ovviamente per seme) attraverso i polloni basali; alcune producono bulbilli alla sommità delle infiorescenze, facilissimi a radicare non appena vengano mesi a dimora.”


      Fondamentale, come per acclarare e testimoniare questo tuo culto fervido, avverato, dell’amicizia (in ispecie ma non solo femminile), l’approccio lirico di una feconda, amabile ritrattistica, che unisce al contorno sensibile, ai dati visibili ed effettuali di ogni comune e accomunante bellezza, la schietta valenza e cifra spirituale – sempre per te ineludibile:

   Ad Anita Napolitano

   la tua poesia è urlo di ribellione:
   è il pianto straziato del tuo dolore
   la passione, il sogno ed anche l’ardore
   è una lacrima di vera commozione.
  

   Nina

   Nel filo sottile
                       di luce
   si tratteggia
                       il tuo profilo
   così

   nel nero cigliare
                       del tuo sguardo
   si affannano
                       i tormenti
  

   Carla e Roberta

                                 (sull’Amore)

   Occhi bassi
   forse per non guardare
   questo mondo estraneo
   Ma la musica ti avvolge
   come un’amica
   E tu, quieta,
   ti fermi e l’ascolti
   e non ti importa
   se esseri bizzarri
   ti girano intorno
   Tu
   cerchi una mano sola
   la mano di tua madre
   che con infinito amore
   d’amore t’avvolge.


   Né ti vièti o ti dimentichi l’urgenza inesausta di testimoniare l’amore per la vita e l’ansia civile di chiunque s’erga a paladino di questa vita; illustre anonimo o eroico, esemplare cittadino che gli càpiti d’essere :

   Si straziano i silenzi


     (A Peppino Impastato,
a tutti i giovani che si sono ribellati
alla mafia, e alle loro madri)

   Si straziano i silenzi di una madre
   piangente sul corpo frusto del figlio
   che il silenzio ha rotto con la voce
   della sua coscienziosa e salda lotta

   ma non è nel lungo oblio che si perde
   l’urlo di rivolta del giovane piombato
   e il sangue si spargerà in ogni dove
   come stigma indelebile del coraggio
    


   Di pagina in pagina, macera, fermenta questa vita come mosto buono, vino che sta facendosi… Personalmente, a miglior brindisi lirico, scelgo le pagine più pazienti e dimesse, terapeutiche d’ogni speranza: quelle che danno conto – ad esempio – del lento, avvinto vincere della “Logopedia”…

   Il lieve esitare del tuo balbettio
   quella parolina sospesa sul respiro
   lo sguardo umido e spaventato

   bimbo mio,
   le risa beffarde dei bambini
   accompagnavano la tua voce

   tu tacevi, quindi
   chiuso nel tuo silenzio
   con mille colori disegnavi
                                 il suono
  

   O quel convocare ancora il ricordo e i riti eterni, immutati della Giovinezza (due volte avverati, in te e poi nel tuo ragazzo, Leonardo), come viaggi nostrani, familiari, ma oscuramente esotici, fioriture avventurose verso e da lidi impervi di continenti comunque sconosciuti, indomati all’Inconscio… 

   Parlano i silenzi della gioventù
   sono parole urlate nell’animo
                                   mutazioni chimiche
                                   di sensazioni eteree
   sono giochi beffardi e strafottenti
   che ridono beati dei sentimenti
  

   La cifra etica, cioè a dire sociopoetica è già tutta qui, in questa vigile, militante Coscienza Femminile (di figlia, poi madre – e al contempo, in vortice –, cittadina, amica, fidanzata, sposa, poetessa…) modernamente intesa e avverata (anche scontata)…
   Tre anni fa, accompagnando con un suo scritto il bel saggio di Gabriella Valli Maschio e femmina li creò (su “l’uomo e la donna” come “le due facce di una stessa medaglia che non possono né debbono essere omologate perché questo significherebbe annullare l’umanità così come la conosciamo, per costruire un ibrido convenzionale del quale stentiamo ad immaginare identità e consistenza e, soprattutto, un avvenire di pace.”) – Nina Maroccolo parlava e si rivolgeva appunto, con Gabri, in Gabri, a un’Eumènide irriconciliata:

   “… Non temere di temere ancora. Falla oggettivamente fuori questa paura paralizzante, per ridurre l’ingombro degli eccessi devozionali.
   Spurgare le cose guaste: concetto di riparazione. Stigma di femmina in realtà colma di forza, tesa alla padronanza del suo sé da ritrovare. Comunque Eumenide irriconciliata, biografa per tutte noi. Senza patetici femminismi che sanno di eresia in questi tempi, nell’odierno ammiccare ad un’errata emancipazione, quando si fa totalitarismo imposto dall’avvento mediatico.  …”
 
   Coscienza militante, abbiamo detto, forte e temprata, se necessario aguzza e pure affilata: ma anche maliòsa ed arcana, effusa in simbolo, e in fondo inossidabilmente archetipica… E capace, per dirla con la Maroccolo, di pareggiare e combattere ogni errata emancipazione, ahinoi, fin troppo pubblica e, lo vediamo, lo soffriamo, banalmente contemporanea…
   Ebbene, tu, Cinzia, hai di sicuro evitato, e lo irridi, lo smentisci ogni giorno, questo grosso rischio, questa perfida e pessima deriva consumistico-globalizzante, edonista-omologata, imposta dall’avvento mediatico… Magari trasformando una personale lotta contro la bulimìa, in splendido, coraggioso e consapevole auspicio metaforico, strategia e terapia epocale:

   Nella mente
   non c’è più ragione
   tutto diventa nebbia
   anche il dolore

   la mia bocca
   si trasforma
   è strumento di pena
   più ingoio e più espio
   io
   cattiva, brutta
   e inutile
   punisco la mia anima
   e ingoio me stessa


   Insomma un libro denso, caro, fertile insieme d’eventi interiori ed acquisizioni esistenziali – e dove il racconto riavverato, l’evangelio e quasi la visitazione, l’annunciazione laici della tua Maternità, ci risospinge, ci premia della luce d’una grande benedizione di comprensione:

   Nel mio corpo materia
   sta crescendo un fiore

   I suoi petali mi saziano

   L’anima mia grida

   È così forte il mutamento
   è la sabbia che diventa mare

   Il mio grembo esplode
   al vagito della vita.

   Dunque un libro materno ma non faziosamente femminile (anzi!, votato, vocato – l’abbiamo visto – a un ammirevole equilibrio psicosociologico!). E dove il miracolo della vita accompagna sempre in gioia anche il dolore della perdita: di un amore fecondo ma irrisolto; di un padre malato; di un cocciuto sogno progressista; della serenità di una mamma che ogni giorno di più sembrerebbe arrendersi alla cattiva salute, ma mai non spegne il fuoco salvifico, propiziatorio, della sua presenza forse anche tantrica, veglia e prova del magico…

     
   nella terra, Madre, mi trascini
   tra le radici e l’humus seppellisci il mio dolore
   e nei sogni ritorni a squarciare il mio buio

   tremola nel vento il riflesso del tuo viso
   che infine scompare tra le nebbie di un lago fatato

   L’acqua, tra i vari elementi, è – come il liquido amniotico – quello che accoglie e che conduce, protegge e sospinge (nel dolce lago della placenta, nel piccolo mare magnum salato – agostiniano – del Credo quia absurdum; negli stessi fiumi della mente o forse della fede, Giordani neobattesimali mai in secca, o intorbiditi… Tiberiade lacustre e senza tempo d’un’interminata, inenarrabile predica o pesca miracolosa (“… Ma alla quarta vigilia della notte Gesù andò verso loro, camminando sul mare. E i discepoli, vedendolo camminar sul mare, si turbarono e dissero: È un fantasma! E dalla paura gridarono.”… Matteo, 14, 25-26).

   Mareggia il mio sentire

   le mie risa sono spruzzi
   nell’aria tersa e fresca                  
                              del mattino.

   Su un letto di sabbia
                              giace il mio pensiero
   accoglie generoso
                              l’avanzare del mare
   ed io divento
                              acqua
   e poi
                              vento
   e poi ancora
                              onda possente
   e sento in me il divenire del mondo.

   Ogni maternità, Tu, Cinzia vuoi dirci, è un umano terrestre miracolo – diciamo anche, il ponte trasparente e poderoso (ma anche fragilissimo) tra Fede e Ragione, tra l’incredibile est dictu e l’adesione istintiva, la certezza immediata:    

   Si arriccia l’onda vicino alla riva
   lampeggia di sole l’acqua marina
   la sabbia accoglie i miei piedi scalzi
                         le orme del mio santo camminare
                         si perdono tra le acque del mare.

   Mi piace che un libro di poesia non ci faccia prediche e predicozzi, ma riconsideri i gangli addirittura filosofici, gli snodi teoretici della vera Fede… E mi piace questa tua religione irenista, cioè equilibrata, bilanciata di rispetto e tolleranza – che propugna dialogo e testimonia fraternità, ci abbraccia o s’inchina di nuda, pura sorellanza; e in nome della luce non rinnega, non evita le ombre, gli espressionismi cupi e carichi del Quotidiano…   
   Poi per virtù d’attesa e voto di pazienza, non diserta il malessere, non si vieta le tappe, le troppe e usuali stazioni da via crucis d’ogni pena allenata, d’ogni “Notte senza posa” educata ad esserlo…

   Nel buio si confonde
                  la mente razionale
   avanzano le ombre
   le immagini si trasformano
                  i pensieri turbinano
                  tra le lenzuola arrotolate

   La luce è ormai già accesa
   ma le ansie nella mente rintanate
                  resistono alla battaglia
                  e non cedono alla resa

   E allora: struttura lirica, rifrangenza romanzesca (romanzo di formazione), ritmo e posa monologante, in aperta e anzi manifesta, dichiarata confessione del quotidiano, contro ogni alienazione metafisica o tara vitale, edenica di surrealtà:

   I passi risuonano
   nella casa silenziosa
                  sono io che cammino
                  che vago senza posa
   inseguo una sola cosa
   un poco di quiete
                  sola quella vorrei
                  accompagnasse i miei sonni

   Poi cerco in me una risorsa
   una perla, un gioiello, una piccola gioia
                  ed ecco
                  figlio mio
                  spalancarsi all’improvviso
                  una finestra aperta sul tuo sorriso.

   Perla e risorsa, gioiello e piccola gioia – anche questa poesia chiede, promette e consacra al Figlio di volere, poter essere ancora e sempre miglior Madre… Migliore, come già lo fosti, se ancora e sempre, ogni giorno energica, della tua stessa fede di sempre, cresimata a una vera lotta per la pace…

   I giorni passati noi due da soli
   lontano da tutto ciò che era caro
   ricordi di adesso di un tempo passato
   tu eri piccino ragazzo mio
                            e forse lo ero anch’io

   siamo cresciuti insieme io e te
   e nelle notti senza luna
   io vegliavo la tua giocosità
   e tu accarezzavi la mia solitudine
  

   Finestra aperta al mondo e sul proprio sorriso…
   Madre/mare, e anche magari violenta, tempestosa mareggiata del proprio sentire… Onda possente che sostiene e induce il divenire del mondo – od ogni verso che ora, qui, adesso, esca dalla carta e dal foglio per bagnarci i piedi, lungo e felice consacrarne il percorso, battezzarci l’Essere così come l’Andare…  

(Roma, marzo 2011)                                        
                                                                     Plinio Perilli 



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