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lunedì 26 maggio 2014

L’illimitata demiurgia del verso di Francesca Innocenzi

Cinzia Marulli Ramadori è un’apprezzata poetessa di Roma, attiva promotrice di eventi letterari, curatrice dei quaderni di poesia Le gemme per Edizioni Progetto Cultura. Las mantas de Dios (Le coperte di Dio) è una piccola scelta poetica della sua opera, sapientemente tradotta in spagnolo da Emilio Coco.

La silloge si apre con il riflettere il mondo in quanto Yin-Yang, sintesi di opposti apparenti, inclusa nella circolare e pur limitata perfezione in cui viviamo. La circolarità stessa rinvia, concettualmente, ad un hortus da leggersi, con ardito rigore etimologico, come sorgente, scaturigine: «È bello il cerchio/ […] perché è tondo/ come il ventre pregno di una madre».

In un’elegia che rivela quanto lo sguardo usuale tralascia, balugina una non scontata riflessione sul post mortem, immaginato come sereno proseguimento dell’esistenza terrena, tra sconfinamenti tenui e attimi di contemplazione silenziosa. Si coglie sottilmente la tensione che unisce e separa la non-materia, territorio del noetico, dell’inafferrabile, dell’illimitato, e la materia, la cui limitatezza intrinseca entro il binomio spazio-tempo vuole essere specularmente superata: «Tanto i piedi sono uguali alla testa/con entrambi si possono fare molti viaggi/ solo che i piedi vanno piano – fanno passi lenti/ la testa –invece – corre veloce/ lì –dove nessuno può arrivare».

Nel rievocare l’infanzia, la memoria torna a quell’intaccato stupore da cui sempre scaturirono le domande volte al vero; e, nel contempo, il piccolo mondo infantile si fa spregiudicata occasione di metafore forti e impietose, in cui la polisemia del verso sconfina nella crudezza perfino consolante della morte e della vita ( si legga il testo Le bambole cieche).

Il dettato, piano e fluido, oscilla tra narrazione di taglio onirico e speculazione pacata, non scevre di una sottesa ricerca di essenzialità e di un’indubbia centralità del simbolo. La poesia si interroga sulla propria missione, individuabile nell’agire incisivamente sulla materia attraverso la parola fino a denudare, attraverso il taglio e lo scavo, il volto speculare del quotidiano; un quotidiano condiviso, irrefutabilmente umano. Così il mestiere di vivere  - per citare Pavese – diviene estuario verso tutte le dimensioni possibili, giungendo a rivelare un’autenticità inaccessibile altrimenti: «Strappami la pelle dall’anima/ fosca luce dell’immane morte/ giaccio con te/ nel tuo ultimo letto/ rannicchiata alle coperte di Dio/ […] nella molecola del sogno/ mi rifugio/ grondante di linfa/ e aspetto, aspetto/ la tua cara/ ultima/ carezza».

 

                                                                                               Francesca Innocenzi

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