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martedì 11 novembre 2014

Mario Meléndez su Las Mantas de Dios

Questa piccola scelta poetica dell’opera di Cinzia Marulli, magistralmente tradotta in spagnolo da Emilio Coco, propone una serie di elementi meritevoli di essere presi in considerazione. Prima di tutto, la bravura dell’autrice nel momento di affrontare il processo creativo, i ricorsi e gli elementi in gioco, gli spostamenti per diversi temi e sottotemi, la sua visione del mondo, come quando parla della morte con una familiarità che commuove; c’è un grado di empatia che la rende visibile a partire dalla quotidianeità, un’appartenenza vitale che impressiona per la sua sincerità e la sua rilevanza. L’infanzia è ugualmente presente, il recupero attraverso la memoria di quel paradiso perduto che ci insegue e ci riconosce, come una ferita che non si cicatrizza mai. La sintesi e il rigore sono altri due elementi di forza: dire tanto con così poco, una lezione ben appresa, derivante, forse, dalle sue instancabili letture della poesía orientale, di quegli autori la cui cosmovisione era nascosta in un granello di sabbia o in un chicco di grano, il paesaggio e la sua impronta, quel “respirare in pace perché gli altri respirino”, come diceva l’indimenticabile Jorge Teillier, e quella capacità di stupire che ci porta per mano attraverso regioni remote e inattese, in una traversata che non ha età né volto, che è yin e yang per uno stesso destino, sogno e realtà, vita e morte di un divenire che soggiace in versi rivelatori, mormorati come una sorta di epitaffio: “Quando sarò dentro alla mia tomba / mi laverò l’anima con le parole /saranno loro le mie preghiere”.

Mario Meléndez



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