La Casa
Delle Fate è il nome con cui
la madre dell’autrice ribattezza il ”luogo del finire” (pag.28), la casa di
riposo dove concluderà il suo percorso. Attraverso la lettura dei versi che
scorrono piani, con voce quasi sommessa, per non turbare un’atmosfera in cui
tutto è vissuto al rallentatore, fatta di suoni ovattati e gesti lenti come una
carezza, comprenderemo che le fate sono le vecchine che la popolano e che scopriremo ancora ricolme di desiderio di
vita, alimentato dai ricordi
trasfigurati dalla nostalgia e dal rimpianto.
L’autrice pensa di portare conforto alle loro giornate rese
senza fine dal vuoto e dall’assenza, ideando un laboratorio di poesia, di
fantastica creazione poetica, perché “è”
poeta ed è ciò che meglio sa dare.
Scoprirà che le sue allieve, come piccole fate buone che il tempo ha
imbiancato, dai lineamenti stemperati e
rarefatti in una uguale immutabile bellezza, conservano nei loro cuori, ancora
palpitanti, una segreta bacchetta magica con cui riportano alla luce, come da
un antico baule conservato in segreto, frammenti di vita e li porgono in dono
creando esse stesse poesia.
Così l’autrice, da consolatrice si riconoscerà confortata e scoprirà
un universo di emozioni gioie rimpianti, che si tradurranno in ineguagliabile arricchimento.
Non c’è ironia nel titolo, in contraddizione con quanto
detto da altri (pag.58), ma solo l’intuizione di una donna, la madre
dell’autrice, di straordinaria sensibilità e capacità intuitiva, tanto da
percepire i tesori nascosti nei cuori delle sue consorti, che come per magia
trasfigurano attraverso la creazione fantastica memorie di vita vissuta: tutto viene addolcito, il male
cancellato, mentre il velo di una senile demenza a volte avvolge il dolore
passato e tutto ammanta, lasciando affiorare solo i buoni ricordi. Come non
andare con il pensiero a uno dei componimenti più belli che siano mai stati
scritti per la propria madre, penso a d’Annunzio e alla sua Consolazione: “…
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.\ Vieni; usciamo. Il giardino
abbandonato \ serba ancora per noi qualche sentiero. \ Ti dirò come sia dolce
il mistero \ che vela certe cose del passato…..
Nella cura che i figli mostrano per la madre, a cui ormai
“sono preclusi i più piccoli e umili gesti della quotidianità (pag.5)”, i ruoli
sembrano essere ribaltati.
Una amica messicana, sensitiva e pranoterapeuta, una volta
mi disse che, nel volgere delle costellazioni attraverso il trascorrere del
tempo, tutti siamo in comunicazione con tutti: il medesimo patrimonio di affetti
e conoscenze alberga in ciascuno di noi poiché ciascuno è stato madre padre
figlio figlia sposo sposa dell’altro. Di vita in vita, di reincarnazione in
reincarnazione ci rincorriamo, a volte solo sfiorandoci, a volte in un connubio
che sfida la morte.
Ma la madre non cesserà mai di prendersi cura dei figli(pag.14): il loro bene è il
suo.
In chi resta è il rimpianto di non aver fatto abbastanza, di
aver perso infinite cose che avremmo potuto ancora dare e avere. Non dobbiamo
essere troppo severi: preservare noi stessi equivale a preservare anche i cari
che non ci sono più, perché, per dirla con Foscolo, finché noi ci saremo , ne
resterà memoria e continueranno a vivere in noi. Dunque non sentiamoci in colpa
se pensiamo di non aver fatto abbastanza. Non si farà mai abbastanza.
L’importante è averli amati, essere stati loro accanto, averli aiutati a
sopportare con leggerezza l’umiliazione dell’incerata( pag.16) o della minestra
insipida e sempre uguale(pag.19), se
questo era il prezzo da pagare per continuare ad apprezzare il bello
delle piccole cose, il volo di una farfalla o il ronzio di un’ape che darà
miele.
Ci commuove il desiderio di amore, la non rinuncia a sentirsi
ancora donna mentre si agghinda con un cappello di paglia per proteggersi dal
sole della vita, ormai troppo forte per non esserne ferita. Alle Fate si
addicono le tinte tenui e l’ombra della sera, il crepuscolo di un lento
tramonto che si spera non finisca mai. Illusione d’essere immortali! Che il
nostro tempo non abbia fine!
Poi la notte si affolla di ricordi, tanto da poter dire
che le fate vivano più di notte che di
giorno, ripercorrendo il sentiero senza
affanno, ma con maggior dolore nella consapevolezza che tutto è perduto(
pag..18).
A chi rimane ancora non resta che esaudire gli ultimi
desideri: il luogo della sepoltura, le foto, suggellare gli ultimi segreti,
rifugiarsi nei luoghi e nelle cose che furono loro per ritrovare la parte
migliore di noi( 48).
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