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domenica 23 aprile 2017

Daniela Iodice su "La parola cercando"

Pubblico di seguito una recensione a "La Parola cercando" (Edizioni Progetto Cultura) scritta dall'autrice stessa, Daniela Iodice. 
E' estremamente interessante questo scritto nel quale, la poetessa, parla di sè e della sua poesia in terza persona, come se fosse uscita da se stessa, come un guardarsi allo specchio. Un esperimento, a mio avviso, riuscitissimo.

Fin dal primo verso l’autrice appare creatura marina: nata dal mare, vorrebbe vivere libera e indocile come un’onda che non è possibile domare. Tutto travolge nella disperata ricerca di quella libertà assoluta che non è dato ottenere all’essere umano, legato alla terra; ma deve accontentarsi di quella libertà che il suo professore di filosofia morale alla Sapienza, il filosofo A Lombardi, definisce pesante, una libertà  di scelta, costretta da infiniti impedimenti. E così l’autrice nella sua ricerca, che non si arrende, trascina con sé le scorie raccolte tra la sabbia tra frammenti di vita vissuta che scivolano come grani tra le dita.
Con scavo impietoso a volte addebita a se stessa la responsabilità  di tali impedimenti, nella viltà di non aver saputo compiere scelte definitive di salvezza; a volte sono i doveri che non è riuscita a scrollarsi di dosso schiacciata dal senso di responsabilità che le è stato inculcato fin da bambina.    Ed ecco la tagliola  in “ Babele” ( v.12), o il braco e le ortiche di “E se non fossero loro” (vv.13-14), o il laccio di elastico liso in “Petali”, o la vena d’acqua strozzata in fondo al pozzo in “San Salvatore delle Milizie” .
A volte sono gli errori commessi dettati da quella che lei stessa definisce “la comune inadeguatezza umana” in Babele, o la schiavitù della carne in “Catullo carme 85” e in “Anna”  o ancora in “Catullo carme VIII”; o la cecità dell’anima e del cuore denunciata ne “Il calice”.
Questo mettersi a nudo è doloroso, afferma l’autrice in Babele: “meglio sarebbe del corpo le ferite”, ma è dettato da un bisogno insopprimibile di comunicazione, la necessità di fare dono di se stessa nella speranza di essere finalmente compresa, spogliandosi di tutti gli infiniti ruoli che le sono stati attribuiti e  di cui si è caricata: madre, figlia, docente, sposa, amante, per tornare ad essere semplicemente donna e come tale essere ricordata.
Sa bene che nel giudizio corrente di chi la circonda è considerata , ed ella stessa si considera, una privilegiata, che dalla sorte sembra aver ricevuto tutto: affetti, benessere e stima. Ma pochi sanno quanto alto sia stato il prezzo da pagare: i rammendati nodi in “ Per dissetarmi” o l’orchidea impavida che incontriamo “Nel giardino”.
È’  anche consapevole  di essere  spesso stata  fraintesa. Penso al rimprovero della madre(“Mia Madre”): la colpa è mia \ che ti ho fatto studiare…..Adesso \ non avresti tante idee \ strampalate per la testa,\ saresti più semplice \ e felice…
Ma la felicità non è di questo mondo( “Alle Maldive di Pasqua” ), l’autrice ne è ben consapevole; eppure, afferma, è bene così: senza il dolore ( “Il ciondolo” ) della vita non apprezzeremmo la bellezza, come non appezzeremmo il profumo di una rosa che non avesse spine.
Tuttavia la sua è una speranza indomabile e feroce( “Il lampione solitario”), è il lumicino che tenta di offrire alla figlia che vede ancora brancolare( “ A Germana”), è la nave che porta in salvo verso altri lidi (“Tamburriata Napulitana” ), nella “Terra Promessa”.
Come ha sottolineato nella Prefazione il fine critico Anna Maria Vanalesti, per la Iodice la scrittura è scialuppa di salvataggio sul cui  fondo depositare fallimenti e angosce, con l’ausilio di una parola retaggio della lunga frequentazione dei classici. Ed è così che si riallaccia a Catullo e riprende il canto dove il poeta latino lo ha interrotto per calarlo nel dolore disincantato dell’oggi, attualizzandolo, come ha ben compreso la compagna di cattedra e carissima amica Silvia Belicchi.  Ed è ancora così che alla domanda rivoltale da alcuni amici, con cui ha assistito alla proiezione del film “La pazza gioia” , come si possa giungere ad uccidere il proprio figlio, risponderà: è l’eterna tragedia di Medea: per proteggerlo dal male e dal dolore del mondo cullandolo in un eterno abbraccio.

Chissà che l’approdo e la soluzione alla ricerca non sia semplicemente l’amore, come è detto in “Pesci rossi”: forse dovremmo nutrirci di baci \ e di carezze solamente. \ Di sicuro, saremmo più felici.\
Daniela Iodice 

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