Pubblico di seguito una recensione a "La Parola cercando" (Edizioni Progetto Cultura) scritta dall'autrice stessa, Daniela Iodice.
E' estremamente interessante questo scritto nel quale, la poetessa, parla di sè e della sua poesia in terza persona, come se fosse uscita da se stessa, come un guardarsi allo specchio. Un esperimento, a mio avviso, riuscitissimo.
Fin dal primo verso l’autrice
appare creatura marina: nata dal mare, vorrebbe vivere libera e indocile come
un’onda che non è possibile domare. Tutto travolge nella disperata ricerca di
quella libertà assoluta che non è dato ottenere all’essere umano, legato alla
terra; ma deve accontentarsi di quella libertà che il suo professore di
filosofia morale alla Sapienza, il filosofo A Lombardi, definisce pesante, una
libertà di scelta, costretta da infiniti
impedimenti. E così l’autrice nella sua ricerca, che non si arrende, trascina
con sé le scorie raccolte tra la sabbia tra frammenti di vita vissuta che
scivolano come grani tra le dita.
Con scavo impietoso a volte
addebita a se stessa la responsabilità
di tali impedimenti, nella viltà di non aver saputo compiere scelte
definitive di salvezza; a volte sono i doveri che non è riuscita a scrollarsi
di dosso schiacciata dal senso di responsabilità che le è stato inculcato fin
da bambina. Ed ecco la tagliola in “ Babele” ( v.12), o il braco e le ortiche
di “E se non fossero loro” (vv.13-14), o il laccio di elastico liso in
“Petali”, o la vena d’acqua strozzata in fondo al pozzo in “San Salvatore delle
Milizie” .
A volte sono gli errori commessi
dettati da quella che lei stessa definisce “la comune inadeguatezza umana” in
Babele, o la schiavitù della carne in “Catullo carme 85” e in “Anna” o ancora in “Catullo carme VIII”; o la cecità
dell’anima e del cuore denunciata ne “Il calice”.
Questo mettersi a nudo è
doloroso, afferma l’autrice in Babele: “meglio sarebbe del corpo le ferite”, ma
è dettato da un bisogno insopprimibile di comunicazione, la necessità di fare
dono di se stessa nella speranza di essere finalmente compresa, spogliandosi di
tutti gli infiniti ruoli che le sono stati attribuiti e di cui si è caricata: madre, figlia, docente,
sposa, amante, per tornare ad essere semplicemente donna e come tale essere
ricordata.
Sa bene che nel giudizio corrente
di chi la circonda è considerata , ed ella stessa si considera, una
privilegiata, che dalla sorte sembra aver ricevuto tutto: affetti, benessere e
stima. Ma pochi sanno quanto alto sia stato il prezzo da pagare: i rammendati
nodi in “ Per dissetarmi” o l’orchidea impavida che incontriamo “Nel giardino”.
È’ anche consapevole di essere
spesso stata fraintesa. Penso al
rimprovero della madre(“Mia Madre”): la colpa è mia \ che ti ho fatto
studiare…..Adesso \ non avresti tante idee \ strampalate per la testa,\ saresti
più semplice \ e felice…
Ma la felicità non è di questo mondo(
“Alle Maldive di Pasqua” ), l’autrice ne è ben consapevole; eppure, afferma, è
bene così: senza il dolore ( “Il ciondolo” ) della vita non apprezzeremmo la
bellezza, come non appezzeremmo il profumo di una rosa che non avesse spine.
Tuttavia la sua è una speranza
indomabile e feroce( “Il lampione solitario”), è il lumicino che tenta di
offrire alla figlia che vede ancora brancolare( “ A Germana”), è la nave che
porta in salvo verso altri lidi (“Tamburriata Napulitana” ), nella “Terra
Promessa”.
Come ha sottolineato nella
Prefazione il fine critico Anna Maria Vanalesti, per la Iodice la scrittura è
scialuppa di salvataggio sul cui fondo
depositare fallimenti e angosce, con l’ausilio di una parola retaggio della
lunga frequentazione dei classici. Ed è così che si riallaccia a Catullo e riprende
il canto dove il poeta latino lo ha interrotto per calarlo nel dolore
disincantato dell’oggi, attualizzandolo, come ha ben compreso la compagna di
cattedra e carissima amica Silvia Belicchi.
Ed è ancora così che alla domanda rivoltale da alcuni amici, con cui ha
assistito alla proiezione del film “La pazza gioia” , come si possa giungere ad
uccidere il proprio figlio, risponderà: è l’eterna tragedia di Medea: per
proteggerlo dal male e dal dolore del mondo cullandolo in un eterno abbraccio.
Chissà che l’approdo e la
soluzione alla ricerca non sia semplicemente l’amore, come è detto in “Pesci
rossi”: forse dovremmo nutrirci di baci \ e di carezze solamente. \ Di sicuro,
saremmo più felici.\
Daniela Iodice
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