È da un intimo, profondo nucleo di gioia (che fa dire
alla poeta: “Io preferisco la gioia/ quella che nasce dentro insieme alla luce
bianca dell’alba”, p.41) che sgorga la poesia della Marulli, la quale, sebbene
non taccia la scena per tanti versi drammatica del mondo, di cui si fa
testimone attenta ed emozionata, non si lascia dominare dalla cultura del
nichilismo.
Né la poeta romana cede all’oscurità dello
sperimentalismo contemporaneo, quasi che la positività del suo credo non possa
non sposare la chiarezza dell’espressione, la quale si mantiene sempre su un
registro mediano con qualche cedimento al tono colloquiale, così che pensieri,
riflessioni, immagini giungono al lettore immediati, senza filtri, senza infingimenti.
Quella della Marulli è una poesia variegata, aperta a
tutti i temi: da quelli civili a quelli memoriali, da quelli attinenti alla
dimensione terrena a quelli metafisici; e però essi sono cuciti insieme dalla
consapevolezza del mistero dell’esistere e della sua complessità non
definibili, né risolvibili.
Ecco perché nel suo dire assume centralità il percorso (o
i Percorsi, come recita il titolo)
che ciascun uomo compie nel bene e nel male, nel dolore e nella gioia,
piegandosi “come un ramo davanti al
tempo”, fino a quando, con la morte, non si aprirà quel dove imperscrutabile (“quel
luogo dove ritrovarmi”), inizio e fine, in una prodigiosa circolarità o se si
preferisce nel paradosso del cerchio”,
così come s’intitola la seconda delle tre sezioni in cui si divide la
silloge.
L’esergo (una citazione da Machado) così, infatti, dice:
“Viandante sono le tue impronte/ la via e nulla più;/ Viandante non esiste un
sentiero/ il sentiero si crea camminando.”
Per l’impasto degli argomenti, dei timbri emotivi, per
l’interrogarsi sensibile dell’anima di fronte agli accidenti della Storia, si
ha l’impressione, leggendo i testi della Marulli, di trovarsi di fronte ad una
spirituale concretezza, ché visibile ed invisibile, immanenza e trascendenza
sono mescolati insieme in nome di un dialogo incessante fra vita e morte,
fra la sfera umana e quella divina, fra possibile e
impossibile, fra realtà e sogno.
Si tratta, insomma, di una poesia che si fa anche
testimone di fede nel mondo, nonostante il male, nonostante la percezione di
una bellezza continuamente minacciata, che evita l’intellettualismo per
desiderio di condivisione, e la cui intonazione sembra scegliere la semplicità
di una conversazione con i propri lettori.
Franca Alaimo
In questa solitudine
che esplode
il mare
lontano e quieto
nasconde la potenza
di un animo perso.
Lì giù,
dove neanche la luce
può arrivare
c’è l’onda che freme
e la roccia è niente.
Il grido di sale tra le gabbie indicibili del costato
le costole frantumate da un cuore fermo, le mani bianche
tra le macerie finte della fotografia
luce e grida, lampi di dolore – voi lì – noi qui.
La carta ci unisce
ma noi guardiamo e voi urlate
a noi basta spegnere il tablet per voltare pagina
per fermare a mezz’aria le bombe
per ricostruire un pensiero nuovo.
E mentre le donne a gambe larghe urlano le loro
mutilazioni
noi firmiamo appelli che vagano nell’etere
e vendiamo armi agli assassini
siamo qui, d’agosto, a stenderci al sole col sottofondo
delle tragedie folli.
Le grida che agonizzano sotto la terra sterile
nei luoghi della dimenticanza
le rose crescono senza petali e il rosso è quello del
sangue.
Buona la pasta mangiata a mezzogiorno
mentre i missili saettano lontano e quel bicchiere
di vino che bagna la coscienza e ubriaca la memoria
è secco come la vagina infibulata di una donna
tristissima.
Il grido, il grido della terra che inonda tutto
questo orrore con le acque sacre del perdono
in quel giardino lontano – forse anche finto –
dove una rosa dai petali bianchi sboccia.
agosto 2014
Quando morirò
vorrei che fosse in una splendida giornata di sole.
Non spendete soldi per la bara
a me bastano quattro tavole di legno.
Niente lacrime per favore.
Io non so dove andrò,
se potrò tornare per raccontare il viaggio.
So però che ho camminato qui,
su questa terra tonda
con un corpo pesante ma con l’anima leggera.
So che ho amato
e che sono stata amata
e il dolore non mi ha risparmiata – in esso sono
cresciuta.
Niente lacrime – per carità.
Lasciatele per chi non ha osato il percorso.
Franca Alaimo è nata nel 1947 a Palermo dove vive. Ha
scritto una quindicina di libri di poesie. Con il romanzo breve L’uomo
dell’incoronazione Serarcangeli, ha esordito nella narrativa. E’ autrice di
saggi sulla poesia di numerosi autori.
Cosa dice di sé:
“amo tutto ciò che è bello: l’arte, la natura, le cose
dello spirito. molti dolori hanno attraversato la mia vita, ma sono stati
proprio essi a concimare il terreno della mia anima e a dare linfa alla mia
scrittura poetica. del resto concepisco la vita come un’esperienza che si fa
sia attraverso gli eventi negativi che quelli positivi. ritengo, tuttavia, che
il nucleo più profondo sia fatto solo di gioia pura, proprio perché reca in sè
l’impronta del divino. ho già compiuto i miei 63 anni, ma non smetto di condividere
con la altre creature lo stupore per la vita e di interrogarmi sul mistero”.
uisi.
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