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sabato 23 luglio 2011

Dante Maffia su "Dalla lirica al discorso poetico - Storia della poesia italiana (1945-2010) di Giorgio Linguaglossa - Edilet 2011

Giorgio Linguaglossa e Dante Maffia
Gli interventi sporadici sulla poesia italiana dal dopoguerra ai giorni nostri si sono succeduti con una cadenza e una frammentarietà che hanno creato molta confusione ingenerando l’illusione che tutti i gruppetti organizzati dai furbetti dei vari quartieri fossero diventati un pezzo di storia rilevante e da cui non si può prescindere. In realtà le operazioni compiute, quasi tutte, non solo hanno il difetto della faziosità, ma mancano dello sguardo complessivo, quello che permette la visione dell’insieme in una dinamica di scambio e di rifiuto, di scontro e di accettazione, di evoluzione e di involuzione. Anche alcune antologie hanno contribuito all’ipertrofia di autori inesistenti sul piano poetico, ma potenti perché funzionari di grandi case editrici o baroni di università prestigiose. Si pensi a quella curata da Krumm, a quella quasi leghista quasi lombarda curata da Cucchi e Giovanardi, a quella ridicola curata da Daniele Piccini.
Scambi di favori spesso stanno alla base di scelte che tali non sono e i signori curatori non si curano di dare uno sguardo all’editoria minore, di provincia, con il pretesto, questa volta vero,  che ormai si pubblica troppo, come se non ci fossero i mezzi per scrutare e verificare nell’immenso mare gli infiniti poeti. Certo, ci vogliono pazienza, amore, passione, professionalità per distillare la valanga di testi che ogni giorno vedono la luce, ma la storia, ormai è un fatto acquisito dalla storiografia di tutto il mondo, non si fa più soltanto sui profili di Mazzini o di Garibaldi, ma “rovistando” nella microstoria, senza, ovviamente trascurare il “prodotto” offerto dalle sigle imperanti e disinvoltamente poi realizzare antologie o profili letterari sulla base dei volumi editi soltanto da Mondadori, da Einaudi, da Rizzoli e da Garzanti e magari non affacciarsi nemmeno nel catalogo non dico di Manni, di Lepisma, di Carabba, di Scettro del Re, di LietoColle, di Book, di Interlinea, di Tracce, di Città del Sole, di puntoacapo, di Genesi, di Edilet, di Empiria, di Maria Pacini Fazzi, di Azimut, di Joker, di Rubbettino, ma nemmeno di Guanda, di Scheiwiller, di Crocetti, di Marsilio, di Laterza, di Passigli, di Casagrande, di Aragno. È talmente tanta la iattanza, la sopraffazione, l’arroganza che ormai, se si gestisce un qualche potere di peso nelle amministrazioni politiche, nella finanza, nelle università o nell’editoria e, in genere, nella industria, che diventa un diritto uscire nello “Specchio” o nella bianca di Einaudi,  nella collana di Garzanti. A che cosa è dovuta questa fregola di non poeti a voler pubblicare e a volersi sentire parte di un universo che non conta? Mi piacerebbe conoscere il parere di antropologi e di sociologi al riguardo…
Davanti a un quadro così ricco e frastagliato, al cospetto di  violenze continue che i vari Cucchi compiono nei riguardi della poesia difendendo soltanto, come diceva Palazzeschi, i portatori sani di stitichezza poetica (in alcune sue recensioni Cucchi a volte ha dato avvertimento al poeta di guardarsi dalla dovizia espressiva e dalla passione), Giorgio Linguaglossa, dopo centinaia di interventi giornalistici e dopo alcuni libri che hanno cercato di fare il punto su che cosa sta veramente accadendo, scrive una storia della poesia degli ultimi sessantacinque anni. Spartiacque arbitrario e quindi discutibile anche questo, ma da qualcosa bisognava partire per focalizzare una situazione e una condizione ormai divenute insostenibili. Davvero ci vogliono ancora far credere che Majorino sia un poeta, che Zanzotto non sia un manierista vuoto e inutile, che D’Elia non sia un modestissimo epigono di Pasolini, che Zeichen non sia un cabarettista e che Cucchi non sia il furbo alchimista di un piccolo giallo inventato per la moda del momento e che inganna anche Linguaglossa tanto è vero che dedica al Disperso almeno sei pagine. Comunque si deduce, da ciò che afferma Linguaglossa, che se questi signori non facessero i giornalisti o non gestissero un potere redazionale, o altro tipo di potere, nessuno li avrebbe mai pubblicati.
Il metodo di Linguaglossa non è una rigida griglia entro cui devono entrare i poeti per essere presi in considerazione, è come se egli badasse alla qualità dei testi e soprattutto alle esperienze che hanno determinato gusti e scelte. Si tratta di un metodo che spinge a una sorta di manicheismo, non sempre condivisibile, che non ammette repliche alle affermazioni frutto di convinzioni sorte da letture filosofiche e sociologiche e che semina molte perplessità a cominciare dalla centralità assegnata a Franco Fortini, ad Ennio Flaiano e ad Angelo Maria Ripellino individuati come il perno di un’officina che sa cogliere i mutamenti in atto e produrre istanze innovative di carattere universale non solo sul piano formale e stilistico. Anche l’importanza assegnata a Helle Busacca, a Maria Marchesi, e a Maria Rosaria Madonna farà molto parlare.
Linguaglossa inventa delle sue categorie per stigmatizzare momenti particolari di una sua città di poeti che a volte è troppo abitata e altre volte è quasi vuota e diventa spesso un’acrobazia seguirlo per gli anfratti delle questioni del modernismo, del riflusso degli anni ottanta, dell’esaurimento del post-simbolismo. Tuttavia ha il coraggio di affrontare le questioni cruciali della poesia degli ultimi decenni con una visione che si può anche non condividere, ma che mette a fuoco le verità più lampanti e più scottanti del nostro tempo troppo ammalato di dirigentismo. Non solo, nell’ultima parte offre un serto di nomi che scrivono finalmente fuori dalle esigenze della moda imposta dal minimalismo e dal resocontismo banale e ovvio. Una scommessa che potrà vincere o perdere, certo non “impone” maestri preconfezionati, non afferma apoditticamente la priorità di scuole che devono per forza dominare. Registra il fare in atto con una conoscenza vasta del territorio poetico e con un intuito che percepisce le fibrillazioni in divenire.
Credo che da questo libro bisognerà ripartire per fare luce, al più presto, sulle reali esigenze della poesia e su chi sono veramente i poeti che hanno saputo interpretare la sensibilità del nostro tempo. Alfonso Berardinelli ci ha provato anni fa dicendo pane al pane e vino al vino, ma poi il fascino del potere lo ha riafferrato e ha fatto marcia indietro.
Le chiacchiere sulla poesia si sono sempre disperse nel nulla col trascorrere degli anni e sono rimasti i testi a parlare, a testimoniare di una civiltà e di una sensibilità che travalicano la storia e la rendono momento perenne. Certo i giochi di prestigio vuoti  e contraddittori di un Franco Loi, che Linguaglossa cita soltanto di sfuggita ma che ha prodotto molta confusione nel panorama della poesia degli ultimi decenni, quelli di Edoardo Cacciatore, della Insana, di De Signoribus, di Ballerini o le scopiazzature di Milo De Angelis non andranno da nessuna parte. Il tempo è galantuomo, ma critici coraggiosi come Linguaglossa aprono il varco alla chiarezza storiografica e a un dibattito che mi auguro leale, sempre legato ai testi, senza diventare una palestra teorica di buone intenzioni o di assiomi insulsi.
“… Ecco di che stupirci: abbiamo molti più poeti che giudici e interpreti di poesia. E’ più facile farla che riconoscerla. Fino a un certo basso livello, la si può giudicare in base ai precetti e al mestiere. Ma la buona, la somma, la divina, è al di sopra delle regole e della ragione. Chiunque ne discerna la bellezza con sguardo fermo e tranquillo, non la vede più di quanto veda lo splendore d’un lampo. Essa non seduce il nostro giudizio; lo rapisce e lo devasta”.

Dante Maffia

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