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lunedì 4 luglio 2011

Giorgio Linguaglossa su Agave di Cinzia Marulli Ramadori

Cinzia Marulli Ramadori Agave Faloppio, LietoColle, 2011

Si sa che l’autenticità ab-soluta, immediata produce, da sempre, fraseologie costipate di egologia e di dolore. È destino dell’esistente «camminare / tra pareti di carta», essere condannati ad una continua recitazione dirimpetto al proprio sosia: «la mia bocca / si trasforma / è strumento di pena / o più ingoio e più espio / io / cattiva, brutta / e inutile / punisco la mia anima / e ingoio me stessa». Posizione frontale, immediata. La Ramadori preferisce prendere di petto le questioni scottanti, preferisce dire le cose piuttosto che lasciarsi dire dalle cose. Nelle sue poesie non si trovano avvenimenti riconoscibili, luoghi individuabili, non vi sono topoi, non vi sono racconti del vissuto, né un’oggettistica classificabile e rinvenibile. È una poesia del dolore ma anche della gioia, della gioia delle piccole cose e dei sentimenti puri, le parole si svolgono in modo normale, seguono una direzionalità declinata all’indicativo («Il profumo delle stelle brilla», «Cadono candidi fiocchi di neve / Sfiorano rami sfioriti dal tempo / Giacciono sereni su giacigli di terra / Imbiancano occhi imbevuti di freddo»).
Poesie dell’anima? Poesia del cuore? Poesia dell’immediatezza? Sì, tutte queste cose insieme, poesia della bella interiorità infirmata, pensieri poetici riesumati dall’oblio dell’esistenza, diario intimo e pudico, dove c’è il pudore delle parole (belle in senso tradizionale) e il pudore delle cose; il rispetto per le parole e per le cose.
Nella lunga, articolata, serrata e affettuosa post-fazione di Plinio Perilli vengono tratteggiate le peculiarità di questa poetessa al suo esordio, la particolare fragranza del suo verseggiare che, se non altro, bisogna ammetterlo, brilla per la sua onestà di fondo.
Senza dubbio, la poesia della romana Cinzia Marulli Ramadori paga lo scotto, in termini stilistici, di un retroterra entro il quale innervare, far fruttificare e fare riferimento; il suo linguaggio poetico, se pecca, pecca proprio per meglio aderire (o almeno così intende l’autrice) il proprio linguaggio alle pieghe e al calco dell’«originale», del «reale» (considerato come un dato indifferenziato che sta dall’altra parte ma in comunicazione con il linguaggio dell’immediato), dando per scontato che l’«originale» sia quella fonte che certifica l’autenticità della dizione poetica.
Insomma, per questa via la Marulli Ramadori non potrà che affinare l’approccio linguistico al «reale» e noi non possiamo che attenderla con fiducia alla prossima prova.

Giorgio Linguaglossa

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